Iran: la lunga lotta delle donne contro il velo obbligatorio

Il caso di Nasrin Sotoudeh, condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate, è forse quello più noto. Ma in Iran la lotta delle donne contro l'obbligo di indossare il velo ha già contagiato diverse attiviste. Che devono fare i conti con i diritti negati loro ogni giorno. Ma che sulla questione abbigliamento hanno trovato anche alleati tra gli uomini

Un mare di indignazione e di proteste da parte della comunità internazionale ha sollevato la conferma in via definitiva della sentenza del tribunale di Teheran contro Nasrin Sotoudeh: la famosa e pluripremiata avvocatessa iraniana 56enne, attivista per i diritti umani e per i diritti delle donne nel suo Paese, dovrà scontare la condanna a 33 anni di carcere e 148 frustate. La pena più severa mai inflitta finora in Iran ad attivisti per i diritti umani.

Diritti negati alle donne in Iran: la condanna di Nasrin

La Sotoudeh è stata punita per aver assunto la difesa legale delle donne arrestate nel 2018 perché avevano manifestato pubblicamente contro l’obbligo del velo. Per l’avvocatessa i capi di accusa sono sette e per ognuno di essi il giudice ha comminato il massimo della pena prevista, per reati che vanno dall’”incitamento alla corruzione” alla “prostituzione”, all’aver commesso “atti peccaminosi” essendo comparsa in pubblico senza il velo, fino alla “propaganda contro lo Stato”.

Come spiega Amnesty International, la Sotoudeh dovrà restare in carcere almeno 12 anni, sulla base dell’articolo 134 del Codice penale iraniano che, in caso di condanna per tre o più reati, prevede di scontare quella più lunga comminata per l’imputazione più grave. Inoltre dovrà scontare cinque anni di detenzione per un’altra condanna del 2016.

Velo obbligatorio per le donne e rivoluzione islamica

L’obbligatorietà del velo in Iran risale alla Rivoluzione islamica del 1979, guidata dall’ayatollah Khomeini: l’hijab, lungi dall’essere semplicemente aderenza a un dettame religioso, allora diventò il simbolo politico della resistenza contro il regime monarchico dello scià Mohammed Reza Pahlavi. Indossare il velo islamico significava contrapposizione netta al modello sociale e culturale filo-occidentale e alla modernizzazione sostenuti dal sovrano.

Indipendentemente dall’aspetto religioso, per le donne della rivoluzione coprirsi il capo era un modo per protestare contro il regime dei Pahlavi, che negli anni Trenta aveva anch’esso stabilito per legge un dress code, un codice d’abbigliamento, per le donne vietando l’uso dell’hijab.

Nei primi anni Ottanta, al tempo della guerra contro l’Iraq, indossare l’hijab, in accordo con i dettami dell’islam, diventò obbligatorio per tutte le donne, iraniane e straniere, indipendentemente dalla loro fede religiosa. Da allora, l’imposizione del velo ha sempre rappresentato uno strumento potente di controllo della vita delle persone da parte delle autorità, una forma di esercizio del potere fin da quando le donne sono bambine.

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Bambina col velo

Abbigliamento delle donne iraniane: ingerenza di Stato

Se per le donne c’è l’obbligo di indossare il velo, oltre a vestiti lunghi e larghi che non mettano in evidenza le forme del corpo, anche per la popolazione maschile il Governo ha fissato delle regole sull’abbigliamento: gli uomini, ad esempio, non possono indossare in pubblico pantaloncini corti e magliette con simboli, disegni, scritte considerati troppo occidentali.

La protesta accomuna donne musulmane devote e donne che non lo sono. Ed è sostenuta anche da molti uomini. Non si tratta di un fatto religioso, è una reazione a una forma di oppressione, un’imposizione dall’alto, un obbligo che grava sulla vita delle persone, riducendo la loro libertà e la loro capacità di scelta nella propria vita.

Le donne si oppongono a una legge che significa pesante, inaccettabile ingerenza e presenza invasiva del potere nella vita personale, nelle decisioni quotidiane, in aspetti dell’esistenza che riguardano esclusivamente la sfera privata, come il modo di vestire, di presentarsi in pubblico e uscire per strada.

La protesta delle donne in Iran sbarca sui social

Il movimento femminista contro l’imposizione dell’hijab non è un fenomeno limitato agli ultimi anni. L’insofferenza a questa legge che rende obbligatorio qualcosa che dovrebbe essere legato a una scelta personale attraversa i decenni, fin dai tempi in cui la legge venne introdotta.

Nel 2014 Masih Alinejad, 42enne giornalista, scrittrice e attivista politica iraniana che attualmente vive negli Stati Uniti, ha lanciato una campagna contro l’obbligo del velo attraverso una pagina Facebook, My stealthy freedom (la mia libertà furtiva). Tutto è cominciato con una prima foto, un selfie, pubblicato sul suo profilo Facebook: nell’immagine è ritratta lei, con il viso scoperto e la sua folta chioma di capelli ricci ribelli al vento.

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Dopo quella prima foto, le donne iraniane hanno cominciato a postare sulla pagina della Alinejad immagini di se stesse con il capo scoperto. Nel 2018 la giornalista ha pubblicato un libro, The wind in my air. My fight for freedom in modern Iran (Il vento tra i miei capelli. La mia lotta per la libertà nell’Iran moderno), un’autobiografia nella quale la Alinejad ripercorre la sua storia personale. Il racconto di una ragazza ribelle e anticonformista in un villaggio dell’Iran più profondo e tradizionalista, diventata una reporter di fama nazionale impegnata nella difesa dei diritti umani.

Mamma di un bambino avuto da ragazza da un matrimonio terminato in brevissimo tempo in divorzio, dal 2009 è costretta a vivere in esilio e se decidesse di rientrare in Iran rischierebbe il carcere. Ma lei spera di tornare un giorno nel suo Paese.

Il suo impegno ha ispirato donne in tutto il mondo. Attraverso My stealthy freedom, la Alinejad ha lanciato la campagna del White wednesday (#whitewednesdays), il mercoledì bianco in cui le donne iraniane si fanno fotografare o riprendere in brevi video mentre sventolano un foulard bianco in un luogo pubblico in segno di ribellione contro l’imposizione politica. Il movimento ha ricevuto contributi anche da donne di altri Paesi, come l’Arabia Saudita e l’Afghanistan, pur restando una campagna rivolta in particolare alle donne iraniane.

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Masih Alinejad – Foto: Kambiz Foroohar (via Wikipedia)

Velo obbligatorio: battaglia contro l’imposizione politica

La battaglia è contro l’obbligo del velo, non contro il velo in sé. Non si tratta di una protesta contro l’islam e i suoi dettami religiosi, come sottolinea la Alinejad, bensì contro un’imposizione politica e l’interferenza oppressiva dello Stato: ciò che si vuole difendere e affermare è la libertà della donna e il suo pieno diritto a scegliere se coprirsi il capo oppure no, a seconda della sua fede e delle sue convinzioni.

Il movimento è a favore di tutte le donne, quelle velate e quelle a capo scoperto. E non è una questione che riguarda solo la popolazione femminile. Molti uomini, fratelli, mariti, padri, si sono schierati dalla parte delle donne e si uniti alle loro manifestazioni di protesta: con l’hashtag #meninhijab qualche anno fa è partita una campagna social attraverso la quale gli uomini si fanno fotografare con indosso un velo o un foulard.

È chiaro che la mobilitazione contro l’obbligatorietà del velo ha un valore altamente simbolico e politico. E la repressione da parte delle autorità è molto severa. All’inizio del 2018 una trentina di donne iraniane è stata arrestata per aver trasgredito alla legge togliendosi l’hijab e scoprendosi il capo in luoghi pubblici.

L’ondata di manifestazioni era cominciata a dicembre del 2017, con il primo gesto dimostrativo di una donna e mamma coraggiosa, Vida Movahedi – condannata lo scorso marzo a un anno di carcere – che si era tolta il velo e lo aveva sventolato in aria come se fosse una bandiera, probabilmente ispirandosi alla campagna White wednesdays.

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Una donna col velo

Nasrin Sotoudeh: la mobilitazione di Amnesty

Nei primi mesi del 2018, nel periodo stesso delle manifestazioni e degli arresti, il Governo di Teheran ha deciso di rendere pubblico un rapporto secondo il quale quasi il 50% della popolazione iraniana, donne e uomini, è contraria alla legge che obbliga le donne al velo. Il sondaggio era stato condotto nel 2014 dal Center for strategic studies, un istituto di ricerca legato al Governo.

Il numero reale delle persone che si oppongono probabilmente è ancora più elevato. Tuttavia, a giugno dello stesso anno, pochi mesi dopo la pubblicazione del sondaggio, Nasrin Sotoudeh è stata arrestata (per la precedente condanna del 2016). Amnesty International si è mobilitata per la scarcerazione dell’avvocatessa e attivista iraniana con una campagna online di raccolta firme.

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