Libano, i rifugiati siriani visti dal campo di Shatila
È il luogo protagonista di una delle pagine più atroci della storia del Libano. Incastrato nella periferia della capitale Beirut, oggi è un riparo per tanti profughi siriani, spesso di origine palestinese. Ma le possibilità di rifarsi una vita in Libano, per loro, sono poche. E così i rifugiati cominciano a ritornare a casa
da Beirut, Libano
Ad altezza occhi, sembra un mercato della periferia di qualche grande città molto povera. Vestiti, giocattoli, scarpe, borse, tutto all’ammasso. Viene da chiedersi chi siano i fornitori di quella roba tanto impolverata e malconcia. Solo frutta e verdura sono ammonticchiate con una cura maniacale.
L’odore che sale dalla strada è nauseabondo: un mix di carne in decomposizione, smog, spezie, acqua stagnante e altri miasmi indecifrabili. Sollevando lo sguardo, si vedono scheletri traballanti di edifici alti almeno sette piani. Le finestre sventrate, le facciate cadenti, come ci fosse appena stata una guerra. Solo i panni stesi al vento ridanno ossigeno e ricordano che lì, la guerra, non c’è più da diversi anni.
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Libano: il suq di Shatila, periferia di Beirut
Si presenta così il suq di Shatila, uno dei campi profughi palestinesi di Beirut. Dal 1948 accolgono rifugiati in fuga dai Paesi limitrofi. Ci si inciampa dentro quando si visita la città: è inserito all’interno del tessuto urbano senza discontinuità. Non ci sono ingressi, né nulla che indichi un campo. Che un campo profughi sia una tendopoli o un luogo chiuso è un’idea distorta. Quando diventano permanenti sono “solo” quartieri.
Il suq si espande intorno a due arterie principali a forma di T, divise in mezzo da una fila di jersey di cemento. L’autista ci passa a fatica con il suo Suv. Sembra di essere in un altro continente rispetto alla sinuosa corniche, il lungomare che si dipana a qualche chilometro di distanza, nella parte Nord della città.
Suonano così distanti i grattacieli squadrati che si affastellano vicino alla marina, lo yacht club cittadino, che rimandano alla memoria l’Italia degli anni Novanta, degli yuppies e della speculazione edilizia: cemento a pioggia, senza alcuna pianificazione. Beirut non è nemmeno tutta scintillante, al contrario. Povertà e ricchezza si mescolano di continuo, in un pastiche indefinito che non può definirsi bello, ma certamente affascinante. Comunque lontano dalla reputazione di Parigi del Medio Oriente.
Shatila è tra gli angoli più poveri, senza ombra di dubbio. Passano pochissime macchine, le vie laterali sono sempre buie e oltre il suq si apre un altro mondo, a cui si può accedere solo se organizzati. Per altro, tutti si riconoscono e ci sono equilibri particolari, come in qualunque sacca di povertà cittadina.
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Lasciare Beirut: i profughi fuggiti dalla guerra
Secondo le stime dell’Onu, ormai, circa un milione sono siriani. Non che questo indichi che non sono comunque palestinesi: molte vittime della guerra in Siria, infatti, sono di famiglie palestinesi e abitavano già in precedenza in campi profughi gestiti dall’Unrwa, l’agenzia Onu dedicata a loro, nelle grandi città siriane.
Tanti di quelli che sono passati da Milano all’inizio della crisi (tra il 2013 e il 2014) erano di Yarmouk, un campo vicino a Damasco. Senza terra due volte: prima con l’insediamento di Israele nel 1948, poi con la guerra in Siria. I campi palestinesi in Siria sono in tutto dodici.
Il livello di conflitto sembra essere meno intenso, da qualche tempo. Tanto basta a fare sì che qualcuno riprenda la via di casa, sperando che la guerra non ribussi alla porta. In Libano per chi ha sangue palestinese non è possibile trovare un vero contratto di lavoro. Le uniche opportunità derivano dai progetti di cooperazione internazionale.
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In almeno 17 mila secondo l’Unhcr hanno fatto ritorno in Siria nel 2018, 13 mila nel 2017. Il 13 maggio l’agenzia di stampa libanese ha battuto la notizia di un peschereccio, in rotta verso Cipro, con otto persone a bordo. La marina libanese ne ha riportate indietro tre, le altre sono disperse.
Il Libano è il Paese con il più alto tasso di rifugiati per abitanti, su una popolazione di circa 4,5 milioni. Secondo l’ultimo rapporto condotto dall’Unhcr sulla volontà di tornare in Siria, condotto su un campione di oltre 2 mila rifugiati siriani in Libano, Giordania ed Egitto, più di sette su dieci vorrebbero rientrare in patria. I motivi principali sono la maggiore sicurezza e le difficili condizioni di vita come rifugiati. Le mete di rientro più gettonate, in oltre il 90% le città natali, sono le città di Dara’a, Homs, Aleppo e Damasco.
Libano, identità in frantumi
L’identità libanese, fin dalle sue origini nel 1943, è frammentata. Non solo per la forte presenza di persone in fuga. Al di là dei palestinesi e dei siriani rifugiati, ci sono poi e comunità sciite, sunnite, maronite, i drusi, i cristiano-maroniti, gli ortodossi siriaci, gli armeni ortodossi. E queste sono solo le più importanti.
Fin dall’indipendenza, la stabilità apparente del Libano è stata un architrave per gli equilibri mediorientali. «La Svizzera del Medio Oriente», così si dice del Libano. Un posto dove vige il segreto bancario, che si finge sempre neutrale in ogni conflitto – dilaniato, ogni volta, da tensioni troppo forti già al suo interno – e capace sempre di ammaliare l’occidente con le sue tanto rimarcate (e solo a scopo politico) radici fenice, quindi non arabe.
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Il memoriale del massacro di Sabra e Shatila
Stretto tra un negozio di scarpe della via principale del suq e il muro di un edificio fatiscente, c’è un piccolo cancello arrugginito. Quando lo si varca, si entra in un posto surreale. Quattro cartelloni, tipo pubblicità, sono appesi nella parte alta della cancellata opposta all’ingresso. A terra, una specie di stele commemorativa. È il memoriale del massacro di Sabra e Shatila, una delle pagine più oscure di tutta la storia del Medio Oriente.
Tra il 16 e il 18 settembre 1982 le milizie delle Falangi libanesi, il partito cristiano-maronita, entrarono a Sabra e Shatila uccidendo una cifra imprecisata di palestinesi, tra i 1.500 e i 3 mila (lo ha stabilito la Commissione Kahan istituita dal governo israeliano). Un genocidio, per l’Assemblea delle Nazioni Unite.
Quello che si è potuto stabilire con certezza è che è stata una vendetta per l’uccisione del loro leader Bashir Gemayel, ammazzato un mese prima in un attentato dinamitardo: due settimane dopo avrebbe dovuto insediarsi come presidente.
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I civili dei campi profughi, però, non avevano nulla a che vedere con quell’attentato, ma ne hanno pagato il prezzo più alto, perché era lì, secondo le Falangi, che si nascondevano i guerriglieri dell‘Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, accusata dai cristiano-maroniti dell’attentato.
Quando si consumò la strage, però, i combattenti palestinesi avevano già lasciato tutti i campi profughi. Solo nel 2017 si è arrivati alla condanna di due persone per l’omicidio di Gemayel, due appartenenti al Partito nazionalisocialista siriano, forza politica che rappresenta gli interessi di Damasco in Libano.
Il massacro ruppe una pace, costruita con enorme fatica, sulla quale avrebbero dovuto garantire Esercito di Israele (considerato «responsabile indiretto» dalle indagini internazionali che ne sono scaturite, Ariel Sharon allora era Ministro della Difesa) e caschi blu dell’Onu. In quei giorni l’Esercito israeliano aveva circondato i campi per evitare pogrom, così dicevano le comunicazioni dell’epoca. Non accade.
Una ferita così profonda nella memoria, non si può rimarginare. Affligge ancora oggi chiunque sia profugo a Shatila.