Rom e sinti: l’Italia è (ancora) il Paese dei campi
A fine 2023 sono 15.800 le persone rom e sinti che vivono in insediamenti formali e informali in Italia: il 44% in meno rispetto al 2016. Anche se si fatica ancora a prendere le distanze da politiche segreganti, in alcuni Comuni oggi si sta provando a superare i campi
L’Italia è ancora il Paese dei campi rom e sinti, quello in Europa che impiega più risorse per il mantenimento di questo sistema abitativo e che fatica a prendere le distanze dalle politiche pubbliche segreganti degli ultimi 30 anni.
È quanto emerge da “Vie d’uscita”, il rapporto annuale dell’Associazione 21 luglio sulla situazione delle comunità rom e sinte in Italia, presentato oggi, 9 aprile, a Roma, su iniziativa della Comissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani.
I dati però raccontano anche che stanno aumentando le fuoriuscite dagli insediamenti: a fine 2023 sono 15.800 le persone rom e sinte che abitano in baraccopoli formali e informali, erano 28 mila nel 2016: in 7 anni sono calate del 44 per cento.
I motivi? Il desiderio di autonomia delle nuove generazioni, il degrado dei grandi insediamenti che porta le famiglie a cercare soluzioni alternative e le azioni dei Comuni per superare i campi.
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Rom e sinti: 6 su 10 sono cittadini italiani
Dei 15.800 rom e sinti che abitano in Italia, 13.300 sono nei 119 insediamenti costruiti e attrezzati dai Comuni, quelli che Antonio Ciniero nel report definisce «un sistema abitativo parallelo destinato a una popolazione definita etnicamente e pensata, erroneamente, come accomunata da bisogni speciali». Un sistema che ha come conseguenza la difficoltà per chi ci vive di conseguire un titolo di studio, accedere al mercato del lavoro e fruire dei servizi di welfare.
Tra queste persone, 6 su 10 sono cittadini italiani (circa 8.100 persone) e il 10% rumeni (circa 1.300 persone).
Rom e sinti oggi: dalle baraccopoli all’aperto alle case popolari
Ci sono diversi tipi di insediamenti formali: all’aperto, le microaree, le case popolari e i centri di raccolta rom. Quelli all’aperto sono in zone periferiche e lontane dai servizi, hanno camper, container o abitazioni costruite con materiali di recupero dove vivono soprattutto persone originarie dell’ex Jugoslavia, spesso con cittadinanza italiana.
Le microaree si trovano al Centro-Nord, sono su aree di proprietà pubblica e vi abitano persone sinte italiane. In alcuni comuni ci sono case popolari con una marcata omogeneità etnica: accade ad esempio a Cosenza e Gioia Tauro.
I centri di raccolta rom sono 3 a Napoli, Latina e Brescia, sono stati costruiti negli ultimi 10 anni e sono strutture chiuse con servizio di distribuzione pasti: accolgono 330 persone.
Le restanti 2.500 persone vivono in insediamenti informali nelle periferie delle grandi città, in tende e abitazioni autocostruite e sono in gran parte rumeni.
Nella maggior parte dei casi, le diverse forme di alloggio non rispettano gli standard internazionali per il diritto a una sistemazione idonea: chi vive negli insediamenti all’aperto ha un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore rispetto alla media italiana.
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La situazione in Italia: a Napoli la più alta concentrazione di rom in emergenza abitativa
Anche se è Roma la città con il maggior numero di insediamenti formali (ne ha 9), è a Napoli che si registra il maggior numero di persone di etnia rom in emergenza abitativa e le baraccopoli informali più grandi.
Sono circa 3.290 e vivono in insediamenti formali, informali e centri di raccolta (lo 0,11% della popolazione totale di oltre 3 milioni di abitanti, la media italiana è dello 0,03 per cento): il 56% è originaria dell’ex Jugoslavia, mentre i restanti sono cittadini rumeni.
Gli insediamenti formali riconosciuti dalle autorità sono 7, quelli informali nati spontaneamente, per occupazione di terreni pubblici o privati, sono 12 e c’è un centro di raccolta.
Altre persone abitano in case popolari, in case nei quartieri di Napoli e su terreni presi in affitto.
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Rom e sinti: verso il superamento dei campi?
Fino al 2018 in Italia i propositi di superamento dei campi «si sono tradotti quasi sempre nella loro costruzione e gestione in nome dell’emergenza sociale e di una presunta temporaneità», si legge nel report.
Dal 2019 però diversi Comuni stanno provando a superarli. Tra questi c’è Collegno, in Piemonte, che nel 2023 ha chiuso l’insediamento in strada della Berlia abitato dal 1997 da una comunità proveniente dalla ex Jugoslavia: dal 2020, le 150 persone presenti sono state ricollocate in abitazioni convenzionali e sono state avviate azioni per favorirne autonomia, inserimento lavorativo e responsabilità sociale. Lo stesso stanno facendo ad Asti, Lamezia Terme, Prato e Roma.
Nel 2022 l’Italia ha adottato la Strategia nazionale di uguaglianza, di inclusione e di partecipazione di Rom e Sinti 2021-2030, ma è stata fortemente criticata dalla Commissione europea e dalla società civile. Uno dei motivi è che non prevede sanzioni in caso di violazione dei suoi principi.
«Il momento è storico e particolarmente favorevole per le 75 amministrazioni comunali che governano i territori su cui insistono i 119 insediamenti monoetnici affinché possano, con coraggio e determinazione, avviare processi di superamento, per cancellare in via definitiva quella vergogna sociale che fa sì che l’Italia dall’anno 2000 venga considerata nel panorama europeo come il Paese dei campi», ha detto Carlo Stasolla dell’Associazione 21 luglio, che, dal 2021, lavora insieme ai Comuni interessati dalla presenza di campi proponendo il modello Marea (Mappare e realizzare comunità).