Caporalato in Italia, Spagna e Grecia: lo sfruttamento del lavoro in agricoltura
Contratti inesistenti e lavoro grigio, passando per lo sfruttamento sessuale e l'emarginazione. Il nuovo report di Terra! accende i riflettori sullo sfruttamento dei lavoratori agricoli in Italia, Spagna e Grecia. E su chi guadagna da questo sistema
Lavoro grigio, assenza di contratti, sfruttamento sessuale, violenza ed emarginazione. La condizione dei braccianti in Italia, Spagna e Grecia è simile e ugualmente drammatica. Lo rivela un’indagine sul campo realizzata da Terra!, dal titolo “E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia”.
Il nuovo rapporto dell’associazione ambientalista mette l’accento sulla dimensione continentale dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, caratterizzato in Italia come all’estero da vuoti normativi, squilibri di potere e debolezza dei controlli nelle filiere di importanti produzioni dell’Europa mediterranea.
«Lo sfruttamento del lavoro è una piaga connessa a un’economia di filiera fragile, che vive di informalità. Questa è una realtà non solo nazionale, ma europea. Ecco perché chiediamo che l’Europa si faccia carico con maggiore determinazione delle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori agricoli, costretti a vivere in condizioni di invisibilità e precarietà estrema», spiega Fabio Ciconte, direttore di Terra!.
Leggi anche:
• Agromafie e caporalato: la nuova geografia del lavoro sfruttato
• Soumaila Sacko: le tracce indelebili di un attivista, migrante e bracciante /1
Caporalato, sfruttamento del lavoro in agricoltura e Gdo
Nei primi mesi della pandemia del nuovo coronavirus, tra le immagini ricorrenti ci sono state quelle degli assalti ai supermercati. «L’Europa, temendo che nessuno potesse più coltivare i suoi campi e quindi portare il cibo a tavola, ha dovuto aprire gli occhi di fronte a quegli invisibili senza diritti, che solitamente si spostano di Paese in Paese in base alle stagioni di raccolta. Si è scoperto che la maggior parte della forza lavoro in questi stati è di origine straniera, spesso senza documenti e senza un contratto regolare, quindi più vulnerabili», si legge nel rapporto.
«Tuttavia, per parlare di caporalato c’è bisogno di risalire l’intera filiera agroalimentare e soffermarsi sulle pressioni che i soggetti più grandi esercitano sui più piccoli e deboli. Questo è il lavoro che Terra! svolge da anni e che recentemente è finalmente entrato anche nella legislazione comunitaria. Le pesanti condizioni che la grande distribuzione organizzata impone ai fornitori sono infatti oggetto di una direttiva approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo (2019/633, la cosiddetta direttiva “pratiche sleali”), con l’obiettivo di delineare un quadro di riferimento comune a 27 legislazioni diverse. Entro il mese di maggio, gli Stati membri sono chiamati a recepirla».
Caporalato in Italia: doppio ribasso e forti criticità
In Italia il settore agricolo è uno dei principali motori di sviluppo del Sud. È qui che ha origine la quasi totalità della produzione ortofrutticola nazionale, ma nonostante ciò il Mezzogiorno arranca. Da qui arriva infatti solo il 30 per cento delle esportazioni totali dell’agroalimentare italiano e nell’area si registra un quarto degli investimenti agricoli totali.
Piana del Sele, Agro Pontino e Foggiano, sono i campi d’indagine che hanno rintracciato le principali criticità nella forte disgregazione tra gli addetti del settore, nella scarsità di politiche di filiera e nella mancanza di organizzazione del lavoro. Secondo il rapporto questi fattori determinano anche il rafforzamento della grande distribuzione organizzata, che commercializza il 70% dei prodotti agroalimentari e che vincola, attraverso pratiche a volte vessatorie, i produttori a dure condizioni contrattuali.
Tra queste, le aste al doppio ribasso, su cui è stato elaborato un disegno di legge correttivo che ora attende di essere approvato in via definitiva dal Parlamento.
Leggi anche:
• Caporalato: la vera storia di Lucia, raccoglitrice di pomodori in Puglia
• The Harvest: il film sul nuovo caporalato agricolo in Italia
Lavoro a cottimo, lavoro grigio e falsi braccianti: cos’è il caporalato oggi in Italia
A minare ulteriormente lo sviluppo del comparto, si aggiungono casi di distorsione del lavoro regolare e dei contratti, che costringono i lavoratori a condizioni di vita indecorose. Il lavoro a cottimo è particolarmente presente nell’Agro Pontino, dove i pagamenti sono erogati in base ai “mazzetti” di ortaggi raccolti, che, seguendo tabelle del tutto informali, vengono poi convertiti in giornate lavorate.
Il fenomeno dei “falsi braccianti” e delle “imprese intermediatrici fittizie” è invece presente perlopiù nel Foggiano. Queste imprese, che non svolgono attività agricola, hanno il compito di inserire negli elenchi agricoli persone che, pur non essendo braccianti, riescono ad accedere ai sussidi dell’Inps.
Ma è il lavoro grigio la piaga più presente al Sud. Si basa su un tacito – e spesso obbligato – accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo: l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo tutto l’anno, ma non registra mai più di 180 giornate, il numero necessario ad accedere alla disoccupazione agricola.
«In questo modo, paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità. Quest’ultimo, dal canto suo, potrà godere degli ammortizzatori sociali previsti grazie a un numero di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte. Per le giornate che eccedono, sarà retribuito in modo informale», spiega il report.
Iscriviti alla newsletter di Osservatorio Diritti
Spagna: contratti precari e significato delle proteste sindacali
In Spagna il rapporto indaga il sistema di impiego dei braccianti in agricoltura ad opera delle società di servizi e delle agenzie di lavoro interinale (Ett, nella sigla in spagnolo), che, in un sistema con una forte presenza di grandi produzioni intensive, hanno assunto un’importanza sempre maggiore.
Uno dei campi d’indagine è Murcia, che con i suoi quasi 470.000 ettari di terreni agricoli è anche nota come la huerta de Europa, l’orto d’Europa. Si tratta della terza regione in Spagna per volume delle esportazioni all’estero di frutta e ortaggi freschi, con un totale di 2,5 milioni di tonnellate (solo dietro all’Andalusia, 4,5 milioni, e la Comunidad de Valencia, 4,05 milioni).
Attualmente i contratti tramite le Ett rappresentano oltre il 55% del totale dei nuovi contratti in tutti i settori nella regione. Il comparto che più pesa in questa percentuale è quello agricolo: dei 490 mila contratti firmati nel 2019 nel settore, 366.000 sono stati fatti tramite Ett, quasi il 75 per cento. Cifre denunciate dai principali sindacati spagnoli, come Cc Oo e Ugt, che accusano le imprese di non volere oneri e di affidarsi, per questo, alle Ett, che sarebbero obbligate per legge ad applicare il contratto collettivo di settore, cosa che non avviene quasi mai.
Immigrati dal Marocco e discriminazione di genere per le fragole spagnole
Il reclutamento spagnolo è diventato un modello europeo: la cosiddetta contratación en origen, il reclutamento diretto di lavoratori in paesi terzi, quasi completamente assorbito dalle migliaia di contratti fatti in Marocco per portare manodopera a Huelva, la provincia andalusa dove si concentra la quasi totalità della produzione nazionale di fragole, di cui la Spagna è primo esportatore mondiale. Un sistema che nasconde tante zone grigie, a cominciare dalla forte discriminazione di genere nei confronti delle lavoratrici marocchine, sottoposte a sfruttamento e violenze fisiche.
Inoltre, l’impoverimento progressivo degli agricoltori li spinge a comprimere dei costi di manodopera bracciantile per mantenere la competitività. Nel frattempo, in un processo di integrazione verticale, le grandi società finanziate da fondi di investimento spingono un numero crescente di agricoltori a rifornirsi presso di loro di tutto il necessario, dalle sementi ai pesticidi, fino alle consulenze. La relazione da un lato presenta i benefici di un legame commerciale stabile e con un rendimento garantito, dall’altro si basa su una dipendenza che, soprattutto nei casi di aziende dedicate solo a un tipo di prodotto, lascia nelle mani dell’impresa integratrice la gestione della produzione, mentre tutti i rischi sono sulle spalle dell’agricoltore.
Leggi anche:
• Violenza sulle donne: nel 2019 registrate 88 vittime al giorno
• Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne: il caporalato in Italia
Grecia, una storia di sfruttamento dei migranti e niente controlli
In Grecia l’indagine parte da Manolada, la regione meridionale nota per la coltivazione di fragole, dove nel 2013 il proprietario di un’azienda aprì il fuoco contro alcuni lavoratori di origine bengalese. Nel Paese, il 90% della manodopera del settore agricolo è composto da migranti, la maggior parte dei quali lavora in modo informale, viene pagata in nero e non è assicurata.
Per anni, i gruppi distributivi e gli importatori di altri Paesi Ue si sono preoccupati più della soglia di qualità e dei protocolli di produzione che degli standard sociali e lavorativi. Le maggiori criticità si rintracciano nell’assenza di controlli.
Fotiadis raccoglie l’intervista sotto anonimato a un ex agente del Sepe, l’Unità greca di ispezione del lavoro, che denuncia la mancanza di un adeguato sistema di verifiche nelle aziende agricole. L’istituto, che lavora sotto vigilanza del ministero del Lavoro, legalmente ha il mandato di controllare l’intero settore privato. Nella pratica però esso non riesce a controllare molto nella produzione agricola perché non ha gli strumenti adeguati.
Tutto dipende dalle dichiarazioni di impiego dei lavoratori, spesso opache. I lavoratori appaiono nel database solo quando i datori di lavoro acquistano un voucher (Ergosimo) assicurativo a loro nome. La legge 4635/2019 prevede che ogni voucher sia dichiarato nel corrispondente sistema telematico (Ergani) del ministero del Lavoro. Questo però non è ancora stato attivato, e inoltre, visto che i cedolini sono emessi sempre alla fine della prestazione lavorativa, questi potrebbero coprire un lasso di tempo più breve rispetto al periodo di lavoro effettivo.
Pochi soggetti forti e continuo taglio dei costi del lavoro
La debolezza dei controlli permette al sistema agricolo greco di sopravvivere, in una filiera composta da una pluralità di piccole e medie imprese (il 98% del totale) che operano su una superficie media di 6,8 ettari, esposte alle pressioni di pochi e forti soggetti della commercializzazione e della distribuzione.
Questi ultimi, infatti, non di rado mettono in competizione i fornitori e ritardano i pagamenti, chiedendo sconti per accelerare le procedure. Inevitabilmente, le pressioni della filiera sugli agricoltori generano sforzi volti alla riduzione dei costi di produzione. E nel ridurre dei costi di produzione, il lavoro è sempre il bersaglio primario. Nei casi in cui i piccoli produttori si trovano sul filo del rasoio, possono facilmente ricorrere al lavoro informale. Quelli più grandi, invece, uniscono lavoro formale e lavoro non dichiarato, sullo stile del lavoro grigio documentato in Italia.
Fonte: Redattore Sociale