Caporalato: la vera storia di Lucia, raccoglitrice di pomodori in Puglia
Lucia Pompigna, 58 anni, lavora da ormai 30 anni in agricoltura. Ha cominciato con i pomodori, anche se è passata per mille altri raccolti. Vittima di caporalato e sfruttamento per tanto tempo, oggi fa parte del progetto “Donne braccianti contro il caporalato” di NoCap. Ecco la sua storia
«L’attenzione è sempre sui braccianti migranti e uomini. Invece ci sono tante donne italiane che vivono la stessa situazione di sfruttamento, che oltre all’orario di lavoro sfiancante e alla paga ingiusta devono subire le avance sessuali dei padroni e dei caporali».
Lucia Pompigna, 58 anni, tre figli, vive a San Marzano (Taranto, Puglia), dove il lavoro in agricoltura impiega una grossa parte degli abitanti. Anche lei ormai 30 anni lavora nei campi, all’inizio vittima di caporalato.
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Donne braccianti contro il caporalato: il progetto di NoCap
La storia della donna a un certo punto è cambiata. Lucia, infatti, è entrata a far parte del progetto “Donne braccianti contro il caporalato”, che dà lavoro a circa 50 braccianti pugliesi e lucane vittime di sfruttamento coinvolgendole in quella che è la prima filiera bio-etica contro il caporalato dedicata alle donne.
Il progetto, promosso dall’associazione NoCap in collaborazione con il gruppo Megamark e la rete Perlaterra, garantisce un contratto dignitoso, con 6 ore e mezza di lavoro al giorno e un compenso di 70 euro lordi. Inoltre, le donne possono contare su un alloggio e il trasporto gratuito, con mezzi sicuri.
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Caporalato in Italia: ecco cosa vuol dire per una donna
«Ero stanca di essere sfruttata nei campi. Quando andavo a lavorare – racconta Lucia – trovavo sempre situazioni spiacevoli: a volte c’era il proprietario che metteva l’occhio addosso alle ragazze, altre volte il caporale che ti ricattava. Alla fine sono loro che decidono se e dove devi andare a lavorare, quante ore e quanto devi guadagnare. Per di più, le donne che lavorano sotto un caporale sono mal viste: sono accusate di non essere mai a casa e si insinua che chissà cosa vanno a fare tutto il giorno».
Lucia ha cominciato raccogliendo pomodori, ma ha lavorato anche con fragole, ortaggi e uva, da aprile fino ad ottobre.
Nel 2017 Lucia ha smesso. «Era comunque una mia scelta. Mi sono accorta che non valeva più la pena di lavorare a certe condizioni, con il caporale che ti urla alle spalle, che ti paga pochissimo e che ti porta in giro su camioncini pericolosi, senza assicurazione e coi freni usurati, che possono rompersi da un momento all’altro. Io ero arrivata a lavorare fino a 12 ore al giorno in magazzino. Allora ho pensato: vale più la mia vita o il mio lavoro? Così ho smesso. Solo quest’anno ho ricominciato, grazie a questo progetto».
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Lotta al caporalato: un tema che non riguarda solo i migranti
Lucia è una delle poche che si è sempre attivata per denunciare le ingiustizie subite, attraverso l’attività sindacale e incontri e tavoli con le istituzioni. Per il suo impegno ha anche subito pressioni, sia da parte dei caporali e degli impresari agricoli, sia delle altre braccianti.
«Mi accusavano di fare casino e rischiare di far perdere il lavoro alle ragazze. L’azienda ha smesso di assicurarmi il trasporto sui campi, mi dovevo arrangiare da sola. Ma il ricatto è soprattutto psicologico: la maggior parte delle persone che lavorano in agricoltura hanno per forza bisogno di guadagnare, non hanno scelta. E la competizione è fortissima: c’è una specie di gara per far vedere chi lavora meglio e di più, perché quando il lavoro cala l’azienda tiene solo i migliori e manda a casa gli altri».
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Una storia di contrasto allo sfruttamento
Avviare un progetto di filiera etica in questo contesto non è semplice. «Le donne hanno paura ad aderire. Temono che il progetto duri poco, che poi si torni sotto il caporale e che ci siano ripercussioni. Ci sono caporali che fanno di tutto per sabotarci – dice ancora Lucia – e per convincere le braccianti a tornare a lavorare con loro. E poi è stato difficile trovare aziende disponibili ad aderire. Comunque, si tratta di un progetto appena nato e piano piano le cose stanno iniziando a carburare. È completamente diverso poter lavorare in un ambiente sereno, in cui non ti senti il piede del caporale che ti schiaccia la testa».
Fonte: Redattore Sociale