Soumaila Sacko: le tracce indelebili di un attivista, migrante e bracciante /1
Soumaila Sacko era un giovane uomo, migrante, sindacalista, che si è battuto per i diritti degli invisibili. Prima di essere ucciso nella nostra Italia. Con questo racconto comincia una serie con cui Osservatorio Diritti vuole presentare le vite di chi ha lasciato "tracce indelebili" nella storia dei diritti umani. E non potevamo che iniziare oggi, 10 dicembre, Giornata mondiale dei diritti umani
Chi si schiera in difesa dei diritti umani sa, consciamente o meno, che sta mettendo a repentaglio la propria vita. Eppure in certe persone il senso di giustizia è più forte di ogni paura. C’è chi li chiama eroi. In realtà, molto spesso, la loro vita è fatta di piccoli gesti quotidiani, accomunati da una grande coerenza con i propri principi e valori. Solo una volta sommate, queste azioni restituiscono la dimensione simbolica di chi li ha compiuti.
Storie di chi ha lasciato con la propria breve vita delle “tracce indelebili“, che Osservatorio Diritti vuole cominciare a raccontare proprio oggi, 10 dicembre, in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani.
Il racconto di Soumaila Sacko vuole essere il primo di una serie, che cercherà di restituire in immagini e parole la vita di giovani donne e uomini uccisi per il loro impegno in difesa dei diritti umani. Donne e uomini che, con il loro impegno, hanno lasciato un segno in chi li ha incontrati e nella storia dell’umanità.
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Chi era Soumaila Sacko
Soumaila Sacko era un giovane uomo, un padre, un migrante e un bracciante. È stato costretto a lasciare l’Africa, il Mali, a causa degli effetti del cambiamento climatico. È finito a fare il mestiere che la sua terra non gli permetteva più di fare in Calabria, un territorio da cui proviene circa un quarto della produzione nazionale di agrumi.
Figlio di sindacalista, sindacalista a sua volta, Sacko si è battuto per i diritti degli “invisibili”: centinaia di migliaia di lavoratori agricoli, soprattutto stranieri, sfruttati non solo nella Piana di Gioia Tauro, ma nei campi di mezza Italia. Vittime di imprenditori senza scrupoli, ingranaggi di una filiera alimentare che si regge sul sistema del caporalato, pedine di una scacchiera dove la ‘ndrangheta, la mafia e la camorra giocano un ruolo di rilievo.
Omicidio di Soumaila Sacko
Il 2 giugno 2018, festa della Repubblica – della Repubblica fondata sul lavoro – Soumaila Sacko viene ucciso da un colpo di fucile mentre si trova nell’ex fornace “Tranquilla” di San Calogero, una fabbrica abbandonata in provincia di Vibo Valentia.
A sparargli, secondo quanto stabilito finora in primo grado, sarebbe Antonio Pontoriero, un agricoltore di 45 anni che, stando ai verbali, di quell’area si sente padrone. La giustizia per ora, l’11 novembre 2020, lo ha condannato in primo grado a 22 anni per omicidio volontario, salvo poi andare agli arresti domiciliari dopo pochi giorni.
Per Salvini «è finita la pacchia!»
Quello stesso 2 giugno, a Vicenza, Matteo Salvini, da ventiquattr’ore ministro dell’Interno, microfono alla mano, scandisce il suo nuovo slogan: «Per gli immigrati clandestini, la pacchia è finita!». Intorno a lui una folla osannante.
In diretta da Vicenza per sostenere Rucco sindaco!
🔴LIVE > https://t.co/1x6lrPPzHN pic.twitter.com/d3wI6cUcyS— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) June 2, 2018
Con Soumaila, invece, ci sono Drame Madhieri e Madoufoune Fofana. Sono due suoi compagni del Coordinamento dei lavoratori agricoli dell’Usb a San Ferdinando, il “ghetto istituzionalizzato”, sgomberato nel 2019 per volontà proprio del ministro Salvini, e nato nel 2010 su iniziativa di un altro ministro degli Interni leghista, Roberto Maroni, all’indomani della “rivolta di Rosarno”, scoppiata dopo mesi di aggressioni ai migranti neri.
La testimonianza che incastra Antonio Pontoriero
Nelle dichiarazioni rilasciate ai carabinieri della stazione di San Calogero, Drame ricostruisce i fatti. Sarà la sua testimonianza a incastrare Pontoriero.
«Ci trovavamo lì al fine di prelevare alcuni pannelli/lamiere di copertura inutilizzati e abbandonati che a noi sarebbero serviti per sistemare la nostra dimora nella tendopoli… Mentre io e Sacko eravamo sul tetto della struttura a smontare alcuni pannelli, udivo un colpo di fucile che ci allarmava e ci faceva scendere subito dal tetto. Avendo percepito da quale direzione proveniva il colpo, ho notato un uomo a distanza, in posizione sopraelevata, che ci osservava da seduto puntandoci il fucile contro. Io avvertivo subito il mio amico Sacko in modo che ci potessimo riparare dall’esplosione di ulteriori colpi. Mentre io comunicavo con Sacko, un altro colpo di fucile colpiva Sacko alla testa e lo faceva cadere per terra procurandogli la perdita di sangue».
Soumaila non muore sul colpo, ma dopo cinque ore d’agonia all’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria. Quando il suo cuore si ferma, ha solo 29 anni.
Storia di Soumaila Sacko: l’arrivo nell’Italia di Mare Nostrum
Soumaila Sacko approda al porto di Taranto il 9 giugno 2014. Uno tra le altre 1.400 persone sbarcate quel giorno. Quell’anno, infatti, è ancora attiva l’operazione Mare Nostrum, la missione di salvataggi in mare varata nell’ottobre 2013, all’indomani del tragico naufragio di un barcone di migranti a poche miglia dall’isola di Lampedusa (368 i morti accertati).
Ha affrontato “il grande viaggio”, attraversando prima il deserto del Sahara e poi il Mediterraneo, su una delle tante carrette del mare. In Mali ha lasciato la moglie e una figlia di un anno.
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La richiesta d’asilo rigettata
Secondo la ricostruzione che Bianca Stancanelli fa della sua vita nel libro La pacchia, il primo dicembre 2014 Soumaila viene convocato dalla commissione che deve decidere sulla sua richiesta d’asilo, a Bari.
Il giovane spiega di essere scappato dal Mali a causa di un incidente stradale che ha provocato mentre guidava un autobus, pur non avendo la patente. Nessuno è morto, solo un motociclista è rimasto ferito, ma per paura di essere arrestato e delle conseguenze che questo fatto avrebbe potuto avere sulla sua famiglia, decide di fuggire. Per i commissari la sua storia non sta in piedi. Il 18 dicembre 2014 la sua richiesta d’asilo viene rigettata.
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Le vere ragione della fuga dal Mali
«In quell’occasione – racconta Stancanelli – conosce l’avvocato Carla Laghezza, che dal 2011, dalla prima grande ondata di arrivi sulle coste pugliesi, si occupa di migranti. Il 29 dicembre l’avvocato presenta i motivi di ricorso al tribunale di Lecce. Chiede per Soumaila il riconoscimento della protezione sussidiaria (che dà diritto a un permesso di soggiorno di cinque anni) o, in alternativa, della protezione umanitaria (permesso da sei mesi a due anni).
Scrive che «il breve racconto del giovane ricorrente non rende appieno le gravi ragioni sottese all’espatrio dal Mali». Nell’attesa, Soumaila ha diritto di restare in Italia; gli viene rilasciato un permesso di soggiorno provvisorio, deve solo preoccuparsi di rinnovarlo ogni sei mesi.
Soumaila Sacko era originario di Sambacanou, un villaggio in Mali nella regione nordoccidentale di Kayes, al confine con la Mauritania
Aboubakar Soumahoro racconta Soumaila Sacko
Dopo la morte di Soumaila, sarà Aboubakar Soumahoro, l’allora sindacalista dell’Usb (Unione sindacale di Base), a spiegare le vere ragioni della sua fuga. Il suo villaggio, Sambacanou, si trova nella regione nordoccidentale di Kayes, in Mali, al confine con la Mauritania, una zona rurale famosa per le siccità ricorrenti.
In Mali, come in molte altre zone dell’Africa, i cambiamenti climatici hanno reso il lavoro agricolo un calvario. I campi sono sempre più improduttivi e riuscire a sfamare la propria famiglia è diventata un’impresa.
«Tutte le infrastrutture (ospedale, scuola, moschea, serbatoio idrico) sono realizzate con le rimesse che i migranti mandano alle loro famiglie. Soumaila, spaccandosi la schiena dall’alba al tramonto nella raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, era uno di loro, proprio come gli emigranti italiani che con le loro rimesse hanno contribuito in modo diretto e determinante allo sviluppo dell’Italia. Purtroppo Soumaila è morto senza essere mai tornato a casa».
Scrive così l’ex sindacalista e fondatore della Lega dei Braccianti nel suo libro “Umanità in rivolta – La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità”.
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Il trasferimento nel ghetto di San Ferdinando
Nel giugno 2016 Soumaila Sacko va a vivere nella baraccopoli di San Ferdinando. Lo si scopre perché si ammala e finisce in ospedale, sorte comune a tanti giovani come lui, viste le condizioni in cui sono costretti a vivere e lavorare.
Va a vivere in una baracca di lamiera, in un accampamento senza strade né servizi igienici. E lavora più di 14 ore nei campi “sotto padrone” (per citare un altro libro che parla della condizione dei braccianti stranieri in Italia firmato da Marco Omizzolo), per uno stipendio in nero di 25 euro a giornata.
Arriva il tempo di dedicarsi agli altri
Grazie all’avvocato Laghezza, il 4 giugno 2017, gli viene riconosciuto il diritto a ottenere un permesso di soggiorno.
«Finita la preoccupazione per il permesso di soggiorno, Soumaila decide che è venuto il tempo di dedicarsi agli altri».
È ancora Stancanelli a ricostruire le tappe della sua breve vita. «È tra i fondatori dell’Associazione maliani, che ha sede in una baracca del campo di San Ferdinando… Il 31 luglio 2017 a Soumaila Sacko viene assegnato un posto nella tendopoli costruita dalla Protezione civile, la terza realizzata nell’area industriale di San Ferdinando, vicina alla baraccopoli ma ben distinta da quell’agglomerato in sfacelo. Aveva un posto in tenda, ma continuava a frequentare la baraccopoli».
L’impegno nel sindacato
A convincere lui e Fofana a partecipare alle assemblee del coordinamento è stato Drame, che li ha portati anche a sfilare a Reggio Calabria nel corteo del Primo maggio, che li ha entusiasmati dicendo che è giusto lottare.
«La sua adesione al nostro movimento sindacale era stata lungamente ponderata. Anche lui come noi pensava che “uniti si vince, divisi non si va da nessuna parte”».
A raccontare è ancora Soumahoro nel capitolo del suo libro dedicato proprio a Soumaila.
La morte di Sacko e il risveglio della coscienza collettiva
Sarà proprio una telefonata di Drame ad avvisare Soumahoro della morte di Sacko, innescando la scintilla del risveglio della coscienza collettiva. Il 4 giugno 2018 l’Usb indice uno sciopero dei braccianti della piana di Gioia Tauro e del Foggiano e promuove una colletta per rimpatriare la salma di Soumaila e riconsegnarla alla famiglia e al suo villaggio.
Nel palazzo comunale di San Ferdinando, davanti al sindaco Andrea Tripodi e al prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari, Soumahoro pronuncia queste parole:
«Un ministro della Repubblica italiana ha dichiarato in questi giorni che è finita la pacchia… allora vogliamo dire al ministro dell’Interno che la pacchia è finita per lui, non è finita per noi, perché noi risponderemo, la pacchia per noi non esiste».
Nei giorni successivi saranno diverse le manifestazioni organizzate in diverse città d’Italia, in memoria di Soumaila Sacko.
La traccia indelebile lasciata da Soumaila Sacko
«Migrante ucciso mentre ruba lamiere in una fabbrica abbandonata». Sarebbe potuto essere questo il titolo con cui liquidare l’omicidio di Soumaila Sacko. E la sua storia sarebbe rimasta a impolverarsi tra i mille faldoni della burocrazia italiana. Ma non è stato così.
Soumaila non è diventato “famoso” per la sua attività sindacale, ma se non fosse stato per i suoi compagni probabilmente sarebbe stato cancellato dalla memoria collettiva, come tanti altri invisibili che ogni anno muoiono nei campi del Made in Italy senza che nessuno se ne accorga.
Oggi, invece, il suo nome non è più solo quello di un “bracciante morto”, ma uno dei simboli della lotta per i diritti degli invisibili, insieme a quello di Placido Rizzotto, Jerry Essan Masslo, Paola Clemente.