Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne: il caporalato in Italia
Seguendo il ciclo delle stagioni, la giornalista Sara Manisera ha raccolto le storie di tanti braccianti impiegati sui campi in tutta Italia. Spesso immigrati, sottopagati, costretti ad obbedire alle regole dei caporali e alle richieste della grande distribuzione organizzata. E in molti casi isolati in ghetti o "campi lavoro"
A metà tra un saggio, un reportage e un libro-denuncia, anche se di fatto vuole essere una raccolta di storie di vita reale, “Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne” (Aut Aut Edizioni), già dal titolo, si presenta come un testo forte, che fa riflettere.
Sul caporalato e sui migranti vittime di sfruttamento, sì. Ma anche sulle scelte alimentari che ogni giorno facciamo limitandoci a dire che non abbiamo tempo e dimenticando quanto dietro dei pomodori o qualsiasi tipo di verdura ci possano essere lavoro malpagato, orari disumani e tanto altro.
Racconti di schiavitù: viaggio nelle campagne d’Italia
L’autrice del libro è Sara Manisera, giornalista che collabora con diverse testate, e ha scelto di raccontare le storie di braccianti impiegati nelle campagne italiane conosciuti durante un viaggio iniziato in Puglia, per poi spostarsi in Piemonte, Calabria e concludersi in Sicilia. Un viaggio che volutamente ha seguito il ciclo delle stagioni, fondamentali quando si coltiva la campagna, e che è iniziato in estate, per proseguire in inverno, autunno e, infine, primavera.
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Il diritto al cibo passa dal diritto al lavoro e alla salute
«Ho cercato di mettere insieme tutte le sfumature di un fenomeno con tante sfaccettature e dove non ci sono solo i buoni e i cattivi», spiega Sara Manisera a Osservatorio Diritti. «Volevo, partendo da storie vere, invitare a riflettere i cittadini-consumatori sul fatto che il diritto al cibo, di cui parliamo spesso, passa anche attraverso il diritto al lavoro e di quelle mani che raccolgono un certo tipo di frutta e verdura. Diritto al cibo, diritto al lavoro e allo stesso tempo diritto alla salute e a vivere in un ambiente il più sano possibile. Tutti diritti che, quando non si è consapevoli di vivere in un sistema economico che si basa sulla gdo (grande distribuzione organizzata, ndr), sul produrre sempre più a basso costo, vengono calpestati».
Un viaggio, quello della giornalista, che in realtà affonda le radici nella sua esperienza personale e familiare. «La mia è una famiglia di contadini ed emigranti partita nel secondo dopoguerra dal Sud dell’Italia per andare in Germania». Un racconto che ha anche a fare con il suo percorso di studi.
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«Ho scritto una tesi sul caporalato, nel 2011 ero a Rosarno per vedere quali erano le cause socio-economiche del problema, constatare la presenza del caporalato e anche della ‘Ndrangheta che monopolizza il mercato ortofrutticolo e questo libro è sicuramente collegato ai miei inizi. La mia scelta si è focalizzata sulle esperienze di resistenza che conoscevo: volevo mettere insieme le storie di chi era sfruttato, ma anche raccontare vicende significative come quella di SfruttaZero».
Un progetto che, racconta Manisera nel primo capitolo dedicato all’estate e ambientato in Puglia, unisce l’associazione Solidaria di Bari a Diritti al Sud di Nardò (Lecce), il cui obiettivo è «coltivare pomodori senza sfruttamento e creare una filiera agroalimentare, alternativa alle sole logiche del profitto, che tuteli l’ambiente e la dignità dei lavoratori».
Progetto nato da un gruppo di giovani italiani precari e rifugiati politici e in cui i lavoratori sono pagati 7 euro all’ora, eliminando così l’intermediazione illecita e lo sfruttamento delle persone. La salsa costa di più, ma la filiera è garantita. Anche perché, come dice nel libro Federico (SfruttaZero):
«Dobbiamo abituarci a chiederci da dove arriva ciò che consumiamo. Chi l’ha raccolto e trasformato. Lo sfruttamento arriva dalla grande distribuzione organizzata delle multinazionali che fissano regole e prezzi insostenibili a monte della catena. È quello il vero meccanismo da spezzare».
Chiedersi da dove arriva quello che mangiamo presuppone – dice il testo di Manisera – capire cosa c’è sulle spalle di chi coltiva la terra, nella Capitanata della Puglia, in Sicilia, in Piemonte, a Rosarno e dintorni.
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Migranti e caporalato: 3 euro per un cassone da 300 kg
Spesso si tratta di migranti che non volevano lasciare il loro Paese d’origine e che non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi «a quarant’anni in un campo di pomodori nel sud Italia». È la storia di Abu Moro, e come lui tanti altri, che viveva in modo più che dignitoso in Libia. «Io guadagnavo tanti soldi. La Libia era l’unico paese illeso in Africa. Le persone andavano lì per cercare lavoro».
Abu Moro ha vissuto la crisi libica del 2011, ma anziché ricevere la protezione da rifugiato si è trovato a fare un “personale pellegrinaggio” nelle campagne del Foggiano. Come spiega Sara Manisera: «Ogni estate, per tre mesi lasciava Bari per recarsi nel ghetto di Rignano Garganico».
Il suo racconto spazia da una paga di 3 euro a cassone (del peso di 300 kg) alla velocità con cui doveva riempirlo per non farsi superare dagli altri e perdere il lavoro, fino a quel dazio da pagare a fine giornata: un cassone va sempre al caporale. Una vera e propria guerra tra lavoratori.
E spostandosi in Piemonte, dalle parti di Saluzzo, la situazione sembra solo leggermente migliorare. La paga è migliore, ma molti migranti vivono nei container allestiti vicino ai campi, in «condizioni indecenti, in uno stato di perenne precarietà». Quelli che vengono chiamati “campi-lavoro”.
Inoltre, non rare sono le situazioni di lavoro “grigio”, come spiega Sara:
«Ci sono giornate lavorative non segnate o segnate a metà. Perché si fa? Il datore di lavoro paga meno tasse e ciò comporta la perdita di molti diritti dei lavoratori, tra questi per esempio la disoccupazione agricola. Ma molti non sanno neanche cosa sia, non conoscono i loro diritti, mancano controlli, manca un sindacato forte».
Il caporalato in Puglia e Piemonte: nel libro di Sara Manisera la differenza tra regioni
Il caporalato cambia a seconda delle regioni. «In Piemonte, a differenza della Puglia, è più facile trovare un posto per dormire: ci sono molti meno casolari abbandonati», precisa la giornalista.
«In alcune zone della Puglia, ma anche della Calabria, ci sono dei veri e propri ghetti, con tendopoli», prosegue Sara. «C’è anche qualche storia positiva, come quella di Drosi, vicino Reggio Calabria, dove i migranti hanno ripopolato un piccolo borgo. Le caratteristiche in comune in tutte le regioni che ho visto? Lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, territori squilibrati che secondo me hanno subito uno sfruttamento massiccio. A Saluzzo, per esempio, mi colpivano i filari di piante tutte uguali. Un osservatore attento dovrebbe accorgersi che stiamo distruggendo anche la varietà».
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«I migranti spesso non sono trattati come persone»
Nel libro, poi, viene fuori un altro aspetto cui si pensa poco: la “non vita” di questi contadini, le “non case”, il fatto di vivere assiepati in lager, centri per migranti che di fatto li portano a stare ancora peggio, a sentirsi isolati, a non partecipare alla vita sociale. Ci si concentra spesso sulla sfera professionale, tralasciando quella personale, senza pensare che tutto questo si può ripercuotere sulla società. Si tolgono anche i loro diritti a essere persone.
«Parliamo di uomini e donne che hanno un loro passato e non bisogna dimenticare che ogni percorso migratorio è a sé. Ho incontrato uomini i cui figli sono nati in Italia e sono dovuti andare a lavorare nei campi». E i nuovi arrivati?
«Si tratta di individui che hanno quasi sempre avuto un percorso migratorio molto complesso: sono persone traumatizzate che hanno affrontato un viaggio che è costato loro in termini economici, ma anche umani. E arrivati qui subiscono anche violenze e torture».
A questo proposito, fanno riflettere le parole di Ettore Mazzanti, infermiere e operatore di Medici Senza Frontiere citato nel libro: «Io penso che chiunque di noi avrebbe un problema di salute mentale se dovesse affrontare tutto questo percorso».
Italia lavoro nero grigio nei campi del nord Italia Saluzzo,Asti ecc. E nel sud Italia ma simil cosa accade anche nelle piscine Comunali italiane ( Mondovì compresa ).Migliaia di lavoratori dai bagnini, a istruttori nuoto e similari, segretarie,personale pulizie, allenatori nuoto e similari ecc.pur di lavorare si è costretti a lavorare senza VISITE MEDICHE periodiche obbligatorie ! Senza corsi sicurezza sul lavoro ! Sottopagati neppure al minimo ma ben sotto di una paga minima regolare ! Niente DPI, niente corsi covid19 ,niente Inail e Inps che comporta a il NON avere cassa integrazione né indennità di disoccupazione !caporalato obbligato o così o non lavori ! Quel che è ancora ulteriormente vergognoso è che a monte sono gli stessi Comuni coinvolti che lasciano procedere l’illegalità sui lavoratori delle piscine comunali in quanto sanno !!! E sono gli stessi Comuni che sapendo hanno lasciato fare alle gestioni non oneste dai Comuni medesimi affidate !!!! Con il covid 19 certe cose stanno uscendo allo scoperto in quanto i lavoratori senza contratto Nazionale descritto sopra possono prendere il coronavirus e altre malattie e trasmetterle e viceversa sia tra i colleghi colleghe fantasmi e propagare il covid19 e altre malattie da fantasmi sportivi lavoratori veri a chi frequenta le piscine comunali italiane che sono ; bambini atleti turisti !!! Per chi si trovasse o si è trovato in codeste pessime condizioni pericolose di lavoro e illegalità contrattuale anche i clienti delle piscine comunali italiane se sanno..possono farlo per dovere civico civile devono farne immediata denuncia contrapposte è meglio presso ;Carabinieri, Guardia di Finanza , CGIL NIDIL Cuneo che ne segue con CGIL NIDIL nazionale i tanti casi , ispettori Asl e Inail INPS, ispettori del lavoro ,il covid19 è in agguato e in tutti i lavori anche nelle piscine comunali italiane si deve lavorare dignità e in regola le ispezioni vanno fatte a monte in certi uffici comunali e gestionali sono gli artefici della illegalità !!! Sergio Morando