
Rifugiati in Libano: siriani e palestinesi in cerca d’identità
In Libano ci sono centinaia di migliaia di rifugiati tra palestinesi e siriani che vivono tra un difficile tentativo di integrazione e una ricerca costante delle propria identità. Una situazione che mette alla prova chi è fuggito da guerra e privazioni e che rappresenta ancora una sfida enorme per il futuro dei bambini
di Beatrice Pistola
Nel cuore del Libano due comunità di rifugiati convivono sospese tra la memoria di una patria perduta e il rifiuto dell’integrazione da parte della società ospitante. I bambini palestinesi e siriani, nati e cresciuti in esilio, costruiscono la propria identità tra macerie, confini e silenzi istituzionali. In un contesto segnato da marginalizzazione giuridica e sociale, precarietà economica e assenza di cittadinanza, l’infanzia diventa un terreno di negoziazione costante tra radici e sopravvivenza, memoria e futuro.
Pur condividendo l’esperienza dello sfollamento forzato, le due comunità si muovono lungo traiettorie storiche, istituzionali e culturali profondamente diverse.
Rifugiati palestinesi in Libano
La presenza palestinese in Libano è una delle più longeve nella regione. Dopo la Nakba del 1948, circa 750.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare la propria terra. Nel corso dei decenni, la diaspora palestinese ha sviluppato un’identità collettiva forte, strutturata attorno al ricordo del trauma, alla centralità del diritto al ritorno e alla resistenza come forma di esistenza.
Oggi circa 490.000 palestinesi risiedono in Libano in condizioni di forte esclusione sociale. Considerati stranieri nonostante la lunga permanenza, sono esclusi dalla cittadinanza e da numerosi diritti fondamentali, tra cui l’accesso a diverse professioni, alla sanità pubblica e alla proprietà privata.
In questo contesto, l’identità palestinese diventa uno spazio politico e simbolico, alimentato da un sistema educativo (le scuole dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente), da reti culturali e da una forte trasmissione intergenerazionale della memoria.
I bambini palestinesi crescono così in un ecosistema identitario codificato, in cui narrazioni, simboli e pratiche quotidiane contribuiscono a costruire un senso di “palestinesità” ancorato alla memoria della perdita e alla speranza del ritorno. Le scuole dell’Unrwa, pur seguendo il curriculum libanese, sono luoghi dove l’identità viene performata e ritualizzata: si cantano inni, si celebrano giornate commemorative, si imparano i nomi delle città perdute.
L’identità non è soltanto raccontata, ma vissuta. Tuttavia, per le giovani generazioni nate in esilio, la Palestina è spesso un’astrazione. Il legame con la terra d’origine è mediato da racconti, fotografie sbiadite, disegni infantili che ritraggono ulivi e bandiere. La patria diventa simbolo, mito, dovere.
Non tutti riescono ad aderire a questa costruzione identitaria: alcuni bambini sviluppano una coscienza critica, manifestano disagio verso una narrazione che percepiscono come imposta e cercano forme nuove e personali di appartenenza.
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Rifugiati siriani in Libano
La diaspora siriana in Libano è più recente e più frammentata. Scaturita dalla guerra civile iniziata nel 2011, ha portato oltre un milione di siriani a cercare rifugio nel paese. A differenza dei palestinesi, i siriani non dispongono di un’agenzia specifica come l’Unrwa, né di uno status giuridico riconosciuto. La loro presenza viene considerata temporanea, precaria, indesiderata.
La mancanza di campi ufficiali e di politiche inclusive da parte del governo libanese ha prodotto una condizione di invisibilità istituzionale che colpisce in modo particolare i minori. Molti bambini siriani sono nati in Libano, ma non sono registrati legalmente: ciò li espone al rischio di apolidia e li priva di diritti basilari, come l’accesso alla scuola o alle cure mediche.
Niente scuola per i bambini siriani in Libano
A differenza dei coetanei palestinesi, i bambini siriani non hanno a disposizione un sistema educativo strutturato. L’istruzione dipende da ong locali e internazionali, da scuole informali, da programmi temporanei.
Questa discontinuità scolastica compromette non solo l’apprendimento, ma anche la costruzione dell’identità e la possibilità di progettare un futuro. In assenza di un quadro stabile, sono le famiglie, quando presenti, a farsi carico della trasmissione culturale. Ma molte famiglie sono frammentate dalla guerra e la trasmissione di una “siriannità” coerente diventa difficile.
Per molti bambini, la Siria è un luogo della memoria dolorosa: bombardamenti, lutti, fuga. Il legame con la patria è segnato dalla paura e dal trauma. E tuttavia, in alcuni casi, emerge anche un desiderio di ritorno, un senso di appartenenza costruito sul filo della nostalgia, alimentato da racconti familiari, poesie, mappe, suoni e profumi immaginati.
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Narrazione per la sopravvivenza dei rifugiati
In questo contesto, la narrazione diventa strumento di sopravvivenza. Bambini e adolescenti siriani e palestinesi raccontano la loro esperienza attraverso la poesia, il disegno, la scrittura, la performance. L’arte diventa luogo di elaborazione del trauma e spazio di resistenza simbolica.
Le poesie di Mahmoud Darwish per i palestinesi, o quelle scritte dalle giovani poetesse siriane in esilio, come Reema e Maram, mostrano come la parola possa diventare casa, rifugio, ponte tra passato e futuro. Le loro voci parlano di nostalgia, rabbia, sogni spezzati e desiderio di riconoscimento. Parlano di una condizione diasporica che è insieme perdita e creazione.
Il ruolo delle famiglie dei rifugiati palestinesi e siriani in Libano
Il ruolo delle famiglie, in entrambi i contesti, è fondamentale. In assenza di politiche statali di inclusione, sono le madri, i padri e i nonni a tramandare la lingua, i valori, le storie. I gesti quotidiani – una danza, una ricetta, un proverbio – diventano atti di resistenza culturale. Tuttavia, anche questo spazio è attraversato da tensioni.
Molti giovani palestinesi mettono in discussione la narrazione eroica e militante delle generazioni precedenti, preferendo forme più fluide e ibride di identità.
Molti giovani siriani, invece, sentono il peso della responsabilità di ricostruire un’identità frantumata, segnata dalla guerra e dalla disillusione.
In entrambi i casi, l’identità non è un’eredità immutabile, ma un campo di negoziazione.
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Il rischio della radicalizzazione tra i rifugiati
Preoccupante è anche la vulnerabilità alla radicalizzazione di alcuni adolescenti, in particolare tra i rifugiati siriani. La mancanza di opportunità educative e lavorative, unita all’esclusione sociale e alla stigmatizzazione, può spingere alcuni giovani verso forme di identificazione estreme.
Gruppi estremisti sfruttano questo vuoto, offrendo appartenenza, potere simbolico e senso. La radicalizzazione, in questo caso, è spesso il sintomo di una crisi identitaria e di una domanda inascoltata di dignità e futuro.
Il fenomeno, tuttavia, non è mai monolitico: accanto a chi cede al richiamo della violenza, vi sono centinaia di giovani che scelgono di resistere attraverso l’istruzione, l’arte, la cura della propria comunità.
Eppure, nonostante tutto, questi bambini crescono. Imparano, osservano, si adattano, resistono. La loro identità è un atto creativo: una costruzione quotidiana, fragile ma tenace, capace di reinventarsi nello spazio dell’esilio. Non sono soltanto vittime: sono narratori, testimoni, attori del proprio destino.
La loro esistenza, in sé, è una dichiarazione politica: anche senza passaporto, anche senza cittadinanza, esistono.