Domicidio: la situazione a Gaza riaccende il dibattito

La distruzione di case palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania si è aggravata in seguito all'inizio della guerra tra Hamas e Israele. Riaccendendo il dibattito internazionale sul "domicidio": ecco qual è il significato di questa espressione e perché alcuni lo considerano già un crimine contro l'umanità

di Arianna Ragucci 

Abitazioni ridotte in macerie, milioni di palestinesi sfollati e confinati in un’area estremamente ristretta nel sud della striscia di Gaza, a Rafah. Palazzi in fiamme, cenere che penetra i corpi delle persone, ospedali fuori uso, famiglie mutilate e prive di un posto da chiamare “casa”, umiliate e costrette a vivere in condizioni di precarietà senza precedenti.

L’agenzia dell’Onu per i rifugiati Palestinesi (Unrwa) comunica che i propri rifugi ospitano un numero quadruplo di sfollati rispetto alla loro capienza. Coloro che non hanno più un posto dove andare sono ora costretti a rifugiarsi in tende.

È quanto emerge dalle notizie e immagini che vengono diffuse quotidianamente dai social media, dai telegiornali e che riportano le agenzie Onu sul campo. Questa realtà a danno dei palestinesi persiste da anni, ma si è esacerbata negli ultimi mesi, in seguito ai tragici attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023.

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Posto di blocco a Hebron – Foto: via Pixabay

Demolizione di case in Cisgiordania e “domicidio”

L’urgenza di una legislazione internazionale che regoli i danni alle abitazioni durante i conflitti si fa sempre più pressante, alimentando il dibattito all’interno del Palazzo di Vetro.

Secondo quanto riferito dai relatori speciali dell’Onu Francesca Albanese, Balakrishnan Rajagopal e Paula Gaviria Betancur, infatti, solo nel gennaio 2023, 132 strutture palestinesi in 38 comunità nella Cisgiordania occupata sono state demolite dalle autorità israeliane. «Questa cifra rappresenta un aumento del 135% rispetto allo stesso periodo del 2022 e include 5 demolizioni punitive».

Il loro rapporto continua così: «La demolizione sistematica di case palestinesi, accompagnata da continui insediamenti Israeliani (illegali secondo il diritto internazionale, ndr) e la negazione sistematica dei permessi di costruzione ai palestinesi nella Cisgiordania occupata equivalgono a “domicidio”».

Significato di domicidio

La parola deriva dal composto di “domus“, che vuol dire “casa”, e “cidium“, dal tema di “caedo”, ossia “tagliare, uccidere”, che in composti doppi assume il significato di “uccisione deliberata” (si pensi alla parola “femminicidio” o “omicidio”).

Questo termine, pur essendo relativamente nuovo all’interno dei dibattiti pubblici, sta diventando un concetto chiave nello scenario del conflitto Israelo-Palestinese. Gli accademici ne parlano da almeno 20 anni essendo ricorrente anche in contesti come Aleppo e la guerra civile in Siria, gli insediamenti Rohingya in Myanmar e la distruzione di Mariupol in Ucraina.

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Il muro tra Israele e Palestina – Foto: via Pixabay

Domicidio a Gaza e genocidio

La distruzione delle abitazioni porta con sé una serie di gravi conseguenze per le persone coinvolte. Essere costretti a lasciare rapidamente la propria casa senza poter pianificare quale oggetto essenziale salvare genera non solo danni materiali evidenti – come la perdita di medicine o vestiti, cruciali per la salute – ma anche profonde ferite psicologiche. Immaginiamo il dolore di chi assiste impotente al rogo della propria dimora e dei ricordi preziosi che essa custodiva.

Ed è proprio questo elemento di memoria che contribuisce a rendere una distruzione prettamente materiale un’erosione culturale: cancellando i ricordi si alimenta la distruzione culturale non solo di una famiglia, ma di un’intera comunità.

Si evidenzia quindi il legame diretto tra genocidio e domicidio. Il primo termine è presente nell’articolo 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” del 1948. Questo prevede l’esistenza di genocidio solo quando ci sia «l’intenzionale uccisione, in parte o in tutto, di uno specifico gruppo protetto», quindi sanzionabile dal diritto internazionale.

Secondo l’ultimo rapporto della relatrice speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata, Francesca Albanese, «ci sono motivi fondati per credere che gli atti di Israele rientrino nella definizione di genocidio».

Il secondo termine, invece, si riferisce alla cancellazione, anche questa intenzionale, della cultura del gruppo in questione. A parlare esplicitamente di domicidio a Gaza e a riportare i dati è il relatore speciale dell’Onu sul diritto a un alloggio adeguato Balakrishnan Rajagopal, il quale stima che più del 70% di tutte le abitazioni in Gaza è completamente distrutto e circa 1,5 milioni di persone sono attualmente sfollate.

Domicidio e crimini contro l’umanità: una questione aperta

Si discute quindi sulla possibilità di rendere il “domicidio” un vero e proprio crimine contro l’umanità. Ma quali sono gli ostacoli legali per compiere un passo di questo genere?

Ad oggi è lo Statuto di Roma, sul quale si costituisce la Corte penale internazionale, che garantisce la protezione dei civili e delle loro case durante i conflitti tra Stati. Quest’ultima caratteristica è fondamentale, implica che i conflitti coinvolgenti attori non statali non sono protetti. Poichè, occorre precisare, la Palestina non è globalmente riconosciuta come Stato, mancano vere e proprie procedure giuridiche per far fronte al problema.

Inoltre, la competenza della Corte penale internazionale riguarda solo gli individui facenti parte di Stati che hanno ratificato lo statuto di Roma e accusati di aver commesso crimini di guerra. Lo Stato di Israele non ha però ratificato lo statuto e di conseguenza i cittadini israeliani non possono essere giudicati dalla Corte.

Come si evolverà il tema del domicidio è incerto, ma i presupposti per renderlo un crimine contro l’umanità in stretto rapporto con il genocidio sono presenti ai livelli più alti delle cariche Onu.

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