Perù, le proteste arrivano a Lima e la repressione fa altre decine di vittime

Dopo un'apparente calma natalizia, la proteste in Perù sono riprese senza sosta a inizio 2023. L'ingarbugliata crisi istituzionale ha già portato all'arresto dell'ex presidente Pedro Castillo e ad indagini a carico dell'attuale presidente, Dina Boluarte, per i massacri delle ultime settimane. I morti si contano a decine, mentre la capitale Lima è invasa dai manifestanti

La situazione è ormai fuori controllo in Perù. Dove la repressione delle manifestazioni degli ultimi giorni ha già fatto più di 60 morti e oltre 500 feriti. E dove l’apparente tranquillità delle feste natalizie sembra ormai un ricordo lontano.

Proteste Perù: è cominciato tutto nel dicembre 2022

Tutto è cominciato nel dicembre 2022, (leggi anche Perù, la repressione fa decine di morti in due settimane), quando si è verificato il fallito tentativo di auto-golpe da parte dell’ex presidente Pedro Castillo (oggi in carcere). In una situazione molto convulsa, la sua vice, Dina Boluarte, ha assunto la presidenza, ma non sono mancate proteste, soffocate con violenza dall’esercito.

Dopo una tesa quiete per le feste natalizie, a inizio gennaio lo scontro si è riaperto. Le proteste nelle zone rurali e indigene del paese, come Puno e Cusco, hanno riacceso la miccia della polarizzazione, scatenando una nuova feroce reazione da parte delle autorità.

Perché sono scoppiate le proteste e la “presa di Lima”, nuovo centro degli scontri in Perù

La cosiddetta “presa di Lima”, ossia la grande manifestazione del 19 gennaio in cui i manifestanti sono arrivati in massa nella capitale dalle periferie contadine del Perù, è solo l’ultimo atto di una gravissima crisi istituzionale, che vede la nuova presidentessa Dina Boluarte già indagata dalla procura per i massacri delle ultime settimane.

Quella parte del popolo che si rispecchia nel deposto presidente Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti), chiedendo le dimissioni di Boluarte e del Congresso, elezioni anticipate in questo 2023 e una nuova Costituzione. E le forze dell’ordine rispondono sparando proiettili ad altezza uomo.

Ora Lima è il nuovo centro dello scontro. Una capitale che fino ad ora si era dimostrata indifferente alle morti del Sud, vite indigene e contadine che sembravano non disturbare la quotidianità di una città che vede se stessa molto distante dalle zone rurali. E allora i nadie (nessuno), come li chiamava Eduardo Galeano, sono andati a prendersi Lima, alzando la posta in gioco.

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Palazzo del Congresso del Perù – Foto: Congreso de la República del Perú (via Flickr)

La violenta repressione della polizia peruviana

Sono 62 le vittime dichiarate fino ad ora, oltre 500 i feriti. Numeri indicativi, perché con l’espandersi della protesta anche le organizzazioni per i diritti umani che denunciano gli abusi e la repressione delle autorità fanno fatica contrastare le informazioni.

Le zone di Apurimac, Puno, Cusco, Arequipa, Huancavelica, Ayacucho e Madre de Dios sono quelle dello zoccolo duro della protesta. Zone che rappresentano la periferia non solo geografica, ma anche sociale ed economica, di una paese storicamente diviso, dove Lima è il centro di quell’oligarchia bianca che tanto ha osteggiato Castillo durante il suo governo.

Il 4 gennaio è ripreso lo sciopero nazionale (Paro nacional), dichiarato già a dicembre scorso e portato avanti in modo permanente da numerosi gruppi della società civile. Questo si è tradotto in blocchi stradali (più di cento nelle prime tre settimane del 2023) e grosse manifestazioni (come quella di Arequipa).

Il giorno più duro della nuova repressione si è vissuto a Juliaca, nella regione di Puno (vicino al lago Titicaca, frontiera con la Bolivia). In un solo giorno, lunedì 9 gennaio, sono state uccise 18 persone, due delle quali minorenni. L’analisi dei corpi ha subito chiarito che la maggior parte di loro sono morti per arma da fuoco.

Ora a Lima è dispiegato l’esercito, per proteggere i centri del potere, i cui rappresentanti non sembrano voler accettare la richiesta di dimissioni che giunge dai manifestanti.

Erika Guevara Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe, ha postato un video in cui denuncia l’utilizzo di vere e proprie “macchine da guerra (inviate al Perù dalla Spagna) per sedare la protesta.

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Juliaca, Perù – Foto: © Diego Battistessa

Proteste Perù: l’uso sproporzionato della violenza

«Il popolo non deve pagare il costo della crisi politica che sta attraversando il Perù», ha dichiarato Cristina Navarro, direttrice nazionale del paese sudamericano per Amnesty International.

Parole raccolte in un comunicato del 10 di gennaio, dove l’organizzazione chiedeva alle autorità peruviane di cessare immediatamente l’uso non necessario e sproporzionato della forza contro la popolazione civile e ad indagare tempestivamente, in modo esaustivo, indipendente e imparziale su possibili violazioni dei diritti umani registrate dall’inizio delle proteste.

Infine, l’ong per i diritti umani chiede che le autorità dispieghino tutte le risorse disponibili per prendersi cura delle persone ferite, garantendone l’immediata assistenza medica, e che vengano rispettati il ​​passaggio delle ambulanze e il lavoro della missione sanitaria.

Nazioni Unite «molto preoccupate» per la situazione in Perù

Parole che hanno fatto eco a quelle di Marta Hurtado, portavoce dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani:

«Siamo molto preoccupati per l’aumento della violenza in Perù, dove lunedì 9 gennaio si è vissuto uno dei giorni più letali dall’inizio dei disordini di dicembre».

La Hurtado ha ricordato anche che le forze di sicurezza devono rispettare le norme sui diritti umani e garantire che la forza sia usata solo quando strettamente necessario, nel pieno rispetto dei principi di legalità, precauzione e proporzionalità.

Nei comunicati di Amnesty e dell’Onu troviamo riferimenti anche al necessario rispetto dei diritti alla libertà di espressione (a diversi giornalisti è stato impedito di svolgere il loro lavoro) e di riunione pacifica, così come il diritto dei manifestanti feriti a ricevere cure mediche.

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Puno, lago Titicaca, Perù – Foto: © Diego Battistessa

A Lima la situazione è fuori controllo

Nella capitale sono stati dispiegati 11.000 agenti, mezzi blindati e barriere per fermare l’avanzata dei manifestanti verso il congresso. Lima è scenario di una vera e propria battaglia campale, dove la piazza di San Martin si è trasformata nel centro simbolico e strategico della protesta.

Una piazza dichiarata patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco nel 1988, che si trova nel pieno centro storico di Lima. Uno spazio che deve il suo nome alla statua del Libertador argentino San Martin, eroe dell’indipendenza peruviana.

Nelle prime ore del 20 gennaio, un grande incendio è scoppiato nei pressi della piazza. Il fuoco, secondo le prime testimonianze, sarebbe stato provocato dalle bombe lacrimogene lanciate dalla polizia contro i manifestanti.

Nel frattempo Dina Boluarte sul suo account ufficiale di Twitter tace. L’ultima dichiarazione è del 9 gennaio, dove, mentre venivano uccise 18 persone a Puno, lei si occupava di ciò che stava succedendo a Brasilia.

«Respingo l’uso della violenza e il tentativo di assalto al Congresso e alla presidenza in Brasile. La mia solidarietà con Lula e il popolo brasiliano di fronte a questo assalto intollerante di coloro che cercano di imporre la propria visione politica, senza rispettare la legge e le istituzioni democratiche».

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