Rohingya: 720 mila bambini “disperati” in fuga da Myanmar
La situazione della minoranza musulmana rohingya in Myanmar in fuga verso il Bangladesh è critica. Al momento si contano in tutto circa 1,2 milioni di profughi. E tra loro ci sono 720 mila minori, i più a rischio secondo ong e organizzazioni internazionali
Case bruciate, persone in fuga, elicotteri che sparano sulla folla: c’è questo nei disegni dei bambini rohingya che, dopo un faticoso viaggio a piedi, sono finalmente riusciti a entrare in Bangladesh e a trovare posto in un campo d’accoglienza. Traumatizzati dalle violenze subite dalle loro famiglie, vivono in rifugi costruiti con materiale di recupero, in agglomerati sovrappopolati, esposti alle intemperie della stagione delle piogge.
Sono stanchi e debilitati. Condizioni che, sommate alle precarie condizioni igienico sanitarie, li espone alle malattie, dal più semplice raffreddore alla diarrea, alla gastroenterite, fino alle potenziali epidemie, come il morbillo o il colera.
«Questi bambini hanno urgente bisogno di cibo, acqua pulita, servizi sanitari e vaccini per proteggersi dalle malattie che si creano in una situazione di emergenza. Hanno bisogno di educazione, di sostegno psicologico, di speranza», ha dichiarato Anthony Lake, direttore esecutivo dell’Unicef.
L’agenzia Onu per l’infanzia il 20 ottobre ha presentato un duro report che denuncia le condizioni di vita di questi minori, “Emarginati e disperati“.
I dati sono allarmanti: i livelli di malnutrizione sono altissimi e mancano servizi per mamme incinte e neonati. L’Unicef sostiene che c’è il rischio che, considerata la mancanza di sicurezza nei campi, trafficanti senza scrupoli cerchino di sfruttarli e manipolarli.
Oltre un milione di profughi, il 60% sono minori
I bambini sono il 60% dei profughi rohingya che hanno lasciato lo stato birmano di Rakhine per cercare rifugio in Bangladesh. Si stima che da fine agosto ad oggi siano ormai 600 mila le persone arrivate oltre il confine, in fuga dalle atrocità della violenza dei militari birmani. Si sono sommati ai profughi scappati dal Myanmar negli anni scorsi, e oggi si stima siano 1,2 milioni di persone, di cui 720 mila minori.
La minoranza musulmana rohingya è da sempre vittima di discriminazioni in Myanmar, paese a maggioranza buddista. Da anni le famiglie in fuga cercano riparo in Bangladesh, attraversando il fiume Naf. Lungo tutto il confine tra i due paesi gli insediamenti informali e i campi di accoglienza sono spuntati come funghi.
«Pulizia etnica» contro i rohingya del Myanmar
Ogni settimana nei campi arrivano tra i 1.200 e i 1.800 bambini, che in alcuni casi sono soli. Come Fatima, 12 anni. Ha perso il padre, la madre, una sorellina di 10 anni e un fratello maggiore, tutti uccisi dai militari birmani in un attacco al loro villaggio. La sua famiglia è scappata quando ha visto che una parte del villaggio era in fiamme. Ma usciti di casa, i militari hanno aperto il fuoco contro le persone in fuga. Anche Fatima è stata colpita da un proiettile vicino al ginocchio, mentre scappava. Un vicino di casa l’ha sollevata e portata via.
Nel campo rifugiati in cui si trova oggi, in Bangladesh, la sua testimonianza è stata raccolta dagli attivisti di Amnesty International per denunciare tutte le violazioni dei diritti umani che i rohingya stanno subendo.
La sua storia e quella di molti altri profughi si trova nel rapporto presentato lo scorso 17 ottobre, “Il mio mondo è finito: crimini contro l’umanità in Myanmar contro i rohingya“. Una ricerca che elenca esecuzioni sommarie, omicidi, torture, stupri, incendi di case e villaggi, deportazioni forzate, documentando tutto con prove.
Colpisce la ferocia delle azioni dei soldati, accusati di aver ucciso neonati e bambini e di aver infierito poi sulle loro madri, violentate dopo essere state costrette ad assistere all’omicidio dei propri figli. Sono crimini contro l’umanità, denuncia Amnesty, che non possono restare impuniti. Sono operazioni che Zeid Ra’ad al-Hussei, Alto commissario dei Diritti umani delle Nazioni Unite non ha esitato a definire «pulizia etnica».
I primi segnali di apertura di Aung San Suu Kyi
Il flusso di migranti dal Rakhine al Bangladesh continua costante, anche se nelle ultime settimane, dopo mesi di pressione, si sono registrati i primi segnali di apertura da parte birmana. Il 13 ottobre Aung San Suu Kyi, leader del Myanmar e premio Nobel per la Pace nel 1991, ha presentato un piano per aiutare i rohingya.
Aung San Suu Kyi ha promesso la creazione di un’agenzia per fornire assistenza ai rohingya e per aiutarli a tornare nello stato di Rakhine. Questa istituzione, ha detto ancora la leader birmana, non sarà gestita dal governo militare e sarà affiancata da organizzazioni straniere. Nel suo intervento, però, la premio Nobel non ha nemmeno accennato alle accuse di violenze rivolte ai militari birmani, così come non lo aveva fatto nell’unico discorso tenuto su questo argomento di fronte alla nazione il 2 settembre.
Il Bangladesh affronta l’accoglienza dei rohingya
I governi di Bangladesh e di Myanmar hanno intanto annunciato di aver istituito un gruppo di lavoro per discutere il rimpatrio dei rifugiati rohingya.
Il Bangladesh fatica a gestire l’organizzazione e l’accoglienza dei profughi. Decine di volontari e associazioni di beneficenza sono all’opera per portare cibo, vestiti e soccorso alle famiglie in fuga.
Il governo di Dacca ha chiesto aiuto alla comunità internazionale, annunciando la costruzione di un grande campo per concentrare i rohingya vicino alla città di Cox’s Bazar, su un terreno di 8 chilometri quadrati, dotandolo di 14.000 unità abitative e di 8.500 gabinetti mobili. Un obiettivo che però agli osservatori appare poco realistico.
Rohingya rischiano nuova «deportazione forzata»
La prospettiva del rimpatrio non piace alle organizzazioni umanitarie e alle agenzie Onu impegnate nel soccorso dei profughi. Il rischio, sostengono, è una nuova deportazione forzata. Le autorità del Myanmar hanno infatti già indicato che qualsiasi rifugiato di ritorno dovrebbe fornire le prove della sua residenza in Myanmar e hanno annunciato l’istituzione di campi per sfollati e aree di insediamento nel nord dello stato di Rakhine.
Anche in questo caso c’è il timore che si ripeta quanto già avvenuto in seguito delle ondate di violenza nel 2012: i rohingya rimpatriati dal Bangladesh sono finiti in campi di reinsediamenti, descritti come prigioni a cielo aperto, in cui donne, uomini e bambini sono stati costretti a vivere in condizioni deplorevoli. Il governo di Myanmar non ha mai consentito alle agenzie umanitarie di accedere a questi campi, così come non permette loro oggi di entrare nello stato di Rakhine.
Non sono buone nemmeno le prospettive per i profughi riparati in Bangladesh. In questo caso la loro libertà di movimento potrebbe essere presto limitata, perché la polizia bengalese ha annunciato «ampie restrizioni» ai loro spostamenti. I profughi potranno muoversi solo all’interno delle aree loro assegnate e non circolare liberamente per il paese, neanche per riunirsi a parenti e amici.
Onu: servono cibo, assistenza e 434 milioni di dollari
Il 23 ottobre si è tenuta a Ginevra la conferenza dei paesi donatori delle Nazioni Unite, nella quale l’Onu ha annunciato che sono state fatte promesse di donazioni per 344,7 milioni di dollari per l’emergenza rohingya nel periodo settembre 2017-febbraio 2018. La priorità è fornire cibo, acqua e assistenza ai rifugiati e sostenere le comunità ospitanti del Bangladesh. Per raggiungere la cifra obiettivo di 434 milioni entro il febbraio 2018, però, la strada è ancora lunga.
Alla conferenza è intervenuta anche Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza frontiere da poco rientrata dal Bangladesh, che ha lanciato un appello:
«Questa conferenza dovrebbe suonare come una sveglia. È il momento di mobilitarsi per evitare una catastrofe, ripristinando la dignità di una popolazione in grave stato di bisogno».