Rifugiati: dai campi profughi della Siria al Brasile per ricominciare a vivere
Reportage da San Paolo, dove rifugiati siriani e palestinesi hanno trovato accoglienza. Storie di persone che hanno ricominciato a vivere tra palazzine occupate e culture diverse dopo un passato di guerra e sofferenza. Una realtà che sta lì a dimostrare che l'integrazione è possibile anche in una delle più grandi megalopoli al mondo
da San Paolo, Brasile
Camminando per le strade caotiche del centro a San Paolo, è possibile vedere la bellezza decadente della città grigia. Alcune case antiche vengono adibite a ristoranti, altre danno spazio a botteghe e officine. Ed è esattamente qui, fra la Liberdade – il quartiere giapponese dal nome suggestivo – e il Bixiga – quello italiano tanto amato dal famoso sambista brasiliano Adoniran Barbosa – che alcuni rifugiati siriani hanno trovato la possibilità di ricominciare a vivere. Le difficoltà esistono, ma la città è entrata nel cuore e si sentono a casa, anche se la loro terra è lontana centinaia di chilometri.
In fuga dal campo profughi palestinese in Siria
La maggior parte di loro proviene da Yarmouk, il più grande campo profughi palestinese della Siria, nato dopo la “Nabka”, l’esodo palestinese del 1948. La vita nel campo è diventata disumana con l’avanzare della guerra in Siria. Tanto che delle 150 mila persone che vivevano li, ne sono rimaste circa 18 mila.
Circondati dai tagliagola dell’Isis, dai ribelli siriani e dall’esercito di Assad, scappare era l’unica possibilità di salvezza, anche se voleva dire diventare profugo una seconda volta. Nonostante abbiano vissuto in Siria, infatti, i ragazzi di Yarmouk non hanno mai avuto la cittadinanza siriana visto che sono profughi palestinesi. E non hanno nemmeno quella palestinese.
L’accoglienza dei rifugiati in Brasile
La situazione è cambiata da quando sono arrivati in Brasile. Nel paese sudamericano, infatti, hanno avuto un codice fiscale – che dà accesso ai servizi pubblici come sanità e scuola, ad esempio – e la tessera del lavoro, documento necessario per lavorare. Oltre al “passaporto giallo“, rilasciato a chi è rifugiato. Anche se il paese ha una politica d’accoglienza di riferimento in materia dei diritti umani, non offre però alcun sussidio economico.
Il Brasile da sempre è stato un luogo di emigrazione e immigrazione, gente che va e che viene. Nel 2011, l’anno in cui è scoppiata la guerra in Siria, il governo dall’ex presidente Dilma Rousseff ha aperto le porte ai profughi.
Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia brasiliano, nel paese vivono 9.552 rifugiati, di cui 2.298 siriani. Il numero dei richiedenti è passato dai 966 nel 2010 a più di 28 mila nel 2015, mentre nel 2016 c’è stato un calo delle domande.
Per alcuni di loro il paese sudamericano non era la prima scelta, ma è stato l’unico ad accoglierli. «Non ho scelto il Brasile, è stato il Brasile a scegliermi», racconta Wessam Othman di 37 anni.
«Dalla Siria sono andato in Libano e ho provato ad avere un visto per l’Europa. Sono andato in diverse ambasciate, ma solo quella brasiliana ha accettato di concedermi un visto».
Tre anni fa il giovane siriano ha lasciato la famiglia in Libano per tentare di ricostruirsi una vita Oltreoceano. Sono rimasti la mamma e otto fratelli, di cui due in seguito sono immigrati, uno in Germania e l’altro in Grecia.
Leila Khaled: una donna simbolo della resistenza
Wessam non aveva parenti né amici a San Paolo. Appena arrivato nell’immensa città grigia si è visto travolgere dal problema di trovar casa. Così si è unito ad altri 60 rifugiati siriani e palestinesi che erano nelle sue stesse condizioni e sono andati a vivere con alcuni brasiliani in una palazzina occupata in via Conselheiro Furtado, nel quartiere giapponese chiamato “Liberdade” (libertà).
Ed è proprio un’immagine gigante della militante palestinese Leila Khaled dipinta all’esterno a identificare l’occupazione organizzata dal Movimento Terra Livre (Movimento terra libera), con l’appoggio del Movimento Palestina para Todos (Mopat, Movimento Palestina per tutti): una palazzina di 10 piani che apparteneva a un ex operatore di telefonia di San Paolo e che per anni è stata abbandonata.
La porta d’ingresso del palazzo rimane chiusa a chiave e può entrarci solo chi ci abita o chi arriva con qualcuno, come quando si è a casa propria. Anche se l’immobile è occupato, infatti, rappresenta l’unica casa per i rifugiati, che quindi se lo tengono ben stretto.
La convivenza tra rifugiati e brasiliani
Attraverso le grandi finestre dall’alto degli ultimi tre piani, i rifugiati guardano l’orizzonte senza fine della megalopoli multietnica, pensando alla vita che hanno lasciato e al futuro che li aspetta.
I piani inferiori, invece, sono destinati ai brasiliani che, nonostante non siano stati costretti a scappare dalle bombe, vivono quotidianamente una guerra sociale. Il primo piano è riservato a una sala riunione che spesso si trasforma in luogo di ritrovo e spazio per le feste.
«Usiamo la stanza anche per distribuire cibo e beni di prima necessità che ci regalano», racconta la brasiliana Bianca Amorin di 23 anni. Arrivata nella palazzina occupata un anno fa, è lei che gestisce insieme a Leandro Ahemet l’organizzazione interna del palazzo. E che si occupa di affrontare anche le incomprensioni dovute alle differenze culturali.
«È ovvio che esistono conflitti. Se fra di noi brasiliani tante volte è complicato risolvere un problema, figuriamoci con un arabo che non parla bene la nostra lingua. Però le divergenze quotidiane sono risolte attraverso dibattiti e discussioni», dice Bianca.
Jeans e hijab: confronto tra culture diverse
Mentre parla, qualcuno bussa alla porta. Sono tre piccole bambine che accompagnano la madre e un’amica a prendere un po’ di pasta, riso e fagioli. Finché le bimbe giocano, Bianca registra sul un libretto le merce consegnate alle donne. Simpatiche, avvisano che quella sera avrebbero preparato il minestrone di verdura che era tanto piaciuto a Bianca e Leandro, invitandoli a cena.
Bianca, che indossava jeans e un hijab chiaro, racconta che tutto è deciso nelle assemblee all’interno dell’occupazione. Come i lavori di sistemazione dell’ascensore, per esempio, pagati con fatica.
Grazie allo stretto contatto con le donne arabe, Bianca si è «innamorata dalla ricchezza culturale di questo popolo». E alla fine si è convertita ed è diventata musulmana.
«La convivenza con loro ha cambiato il mio modo di pensare. Ho capito che la libertà non sta nel vestito che indosso, ma nella pace spirituale», racconta la brasiliana.
Wessam non abita più nell’occupazione da quasi due anni, ma gli otto mesi vissuti li sono impossibile da dimenticare. La multiculturalità del posto va oltre l’accoglienza del siriano e palestinese: oggi vivono lì peruviani e persino un cinese, che però parla bene il portoghese, dice sorridente la dolce Bianca.
Al Janiah, tra ristorante e centro culturale arabo
A due passi dalla palazzina occupata, dall’altra parte del ponte che passa sopra la via 23 de maio, si arriva al Bixiga, quartiere che da fine Ottocento accoglie immigrati italiani. Chi passa davanti alla discreta casa d’angolo di via Rui Barbosa 269, fatta di mattoni marroni, non riesce a immaginare cosa succeda lì dentro. Una specie di “Isola che non c’è”, dove i profumi delle spezie si mescolano alle lingue del mondo, dall’arabo all’inglese per finire nel portoghese, una sorta di esperanto.
Delle 25 persone che ci lavorano, la metà sono siriani e palestinesi e tante abitano nella palazzina occupata Leila Khaled. Sono loro ad accogliere all’ingresso, con un sorriso stampato in volto, chiedendo il nome e scrivendolo in arabo sulla porta d’entrata.
All’ingrasso si trova un grande bancone con i drink più diversi. Il più famoso si chiama Palestina Libre: una miscela di araque (una bevanda araba tipica), cachaça (grappa di canna di zucchero), limone, peperoncino e zátar verde.
Il posto è suggestivo. Dalla cucina aperta dove lavorano cuochi mussulmani, da cui escono profumi che fanno immaginare il piccolo villaggio nella Cisgiordania che dal 1967 resiste all’occupazione d’Israele e che ha ispirato il nome del locale.
Al Janiah è un misto tra ristorante e centro di cultura araba che ha abbracciato tutte le culture del mondo. Un luogo di resistenza, dove tutti sono uguali e il rispetto verso l’altro predomina.
Hasan Zarif, il proprietario, è nato in Brasile da genitori palestinesi ed è anche uno dei fondatori del Mopat, il movimento dietro all’occupazione Leila Khaled. L’uomo si piega in quattro per riuscire a stare dietro alle esigenze e alle difficoltà del personale.
Impossibile arrivare in Palestina
Altri tre palestinesi che frequentano il locale raccontano che lo scorso luglio hanno preso un aereo per andare in Palestina a trovare la madre di uno di loro che stava male. Hanno fatto scalo a Dubai e invece di proseguire il viaggio sono stati rispediti in Brasile. Anche se tutti avevano il passaporto giallo dei rifugiati.
«Siamo rimasti bloccati nell’aeroporto per tre giorni, abbiamo chiamato l’ambasciata del Brasile e alla fine ci hanno espulsi», racconta Alaa Kaseem, di 27 anni. Sua madre, che già stava male, è finita in ospedale. Kaseem è arrivato in Brasile circa due anni fa, lavora al ristorante e vive nella palazzina occupata.
«Brasiliani profughi nel loro stesso paese»
L’Al Janiah è diventata una sorta di seconda casa per tanti ragazzi. Ma anche per le prime generazioni di rifugiati palestinesi arrivati in Brasile anni fa, come Isam Ahmad Issa. Che seduto in un tavolino nel giardino esterno, ricorda le case arabe con le sue corti interne. Due bandiere della Palestina dipinte al muro fanno da cornice alla sua storia.
Dottore di ricerca in Tecnolgia dell’allevamento di animali, palestinese, militante, un profugo fra i tanti a San Paolo, come lui si definisce. Perché dopo tanti anni vissuti in Brasile, ha capito che «anche i brasiliani sono profughi nel loro stesso paese».
«I poveri in Brasile vivono una realtà di esclusione incredibile. Ho imparato che cosa è un senzatetto qui. Nei paesi arabi questo non esiste. Nessuno dorme per le strade, perché non ha un posto da stare», racconta.
Un altro nodo del paese sudamericano secondo Isam è il razzismo, che lui ha visto crescere con gli ultimi rifugiati arrivati. «Il paese sta vivendo un clima di intolleranza politica e questo si rispecchia nei più deboli».
L’integrazione tra palestinesi, siriani e brasiliani
Zarif, il responsabile di tutta questa rivoluzione culturale e sociale, racconta quanto quello che sta accadendo all’Al Janiah sia importante per l’integrazione dei palestinesi e siriani con i brasiliani. «Oltre alla cucina araba, abbiamo la musica, la lingua, gli eventi legati alla questione palestinese, al diritto del ritorno alla nostra terra», spiega.
Il locale, però, va oltre la cultura araba e abbraccia diverse altre culture, dall’Africa all’American latina, comprese le lotte dei movimenti neri e delle donne. Non per niente, proprio accanto alla cucina, un poster messo ricorda che «il luogo della donna è dove lei vuole che sia».