Porti e migranti, il bluff di Minniti

Dalla proposta di inviare altrove le navi con profughi a bordo a quella di chiudere i porti a barche straniere: ecco cos'è davvero praticabile nelle dichiarazioni del ministro dell'Interno

«Io sarei orgoglioso se una e una soltanto fra le navi che operano nel Mediterraneo, anziché arrivare in Italia andasse in un altro porto europeo. Non risolverebbe il problema migratorio, ma sarebbe un segnale straordinario». Lo aveva dichiarato il ministro dell’Interno, Marco Minniti, parlando al convegno “Governare l’immigrazione” di Milano lo scorso 28 giugno.

Dopo le polemiche sull’ipotesi di chiudere i porti alle navi straniere – idea che sembra definitivamente tramontata con il duro diniego del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio – Minniti ha dunque invocato un gesto di rottura, una provocazione da parte delle navi delle ong, in segno di solidarietà con l’Italia.

Ma una nave privata può decidere in autonomia se recarsi a Catania, a Marsiglia o a Stoccolma con a bordo i migranti?

Chi decide la destinazione

«Lo stato che coordina i salvataggi perché responsabile dell’area di ricerca e soccorso ha la responsabilità principale di determinare un porto sicuro», spiega Francesca De Vittor, docente e ricercatrice di Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano e autrice di un dettagliato articolo sulla materia. «Certo, “porto sicuro” potrebbe essere tranquillamente la Francia, ma le convenzioni internazionali specificano che la rotta prevista dalla nave di soccorso venga modificata il meno possibile», prosegue la docente.

«Bisogna capire che le convenzioni non sono state scritte pensando a Medici Senza Frontiere e a quanto accade al largo delle coste libiche, ma per i mercantili o i pescherecci in avaria soccorsi da altre navi private. Cercando di arrecare il minimo danno, anche economico, a chi effettua i salvataggi».

Già oggi non sono le singole navi private, qualunque bandiera battano, a decidere dove recarsi. Perché esiste una filiera di coordinamento che permette di individuare il cosiddetto “luogo sicuro” (o “porto sicuro”, place of safety): una filiera che coinvolge il Corpo delle capitanerie di porto, il Maritime Rescue Coordination Centre di Roma e, infine, una sala del dipartimento Immigrazione e libertà civili del ministero dell’Interno che, appunto, dipende da Minniti.

Il luogo di sbarco è sicuramente una responsabilità condivisa fra lo stato di bandiera e quello di coordinamento dei soccorsi. Tuttavia spetta alle istituzioni e alla politica trovare un accordo con le autorità di altre nazioni europee. Non ai privati.

I problemi aperti

Se anche venisse raggiunto un consenso a livello europeo, resterebbero dei problemi da risolvere. Primo: come fa un’imbarcazione di 30 metri, con un equipaggio di 15 persone, a trasportare per giorni o settimane e in condizioni decenti 500 migranti con tanto di scorte, viveri, farmaci sufficienti a garantire la sicurezza del viaggio?

E ancora: se la nave Aquarius della ong Sos Méditerranée, che batte bandiera di Gibilterra, viene destinata alla Spagna per trasbordare i migranti, o se la Sea Watch 2 dell’omonima ong tedesca deve andare a Rotterdam perché è registrata in Olanda, che cosa accade nel Mediterraneo centrale durante i giorni o le settimane di assenza? Accade che quell’area rimane sguarnita e bisogna sostituire gli assetti navali con altri, posto che nessuno vuole assumersi la responsabilità politica della morte di decine di migliaia di persone.

Alternative (non) praticabili

Nella situazione attuale, ma solo sulla carta, l’assistenza in mare nelle aree rimaste scoperte potrebbe essere garantita da altre ong, dalle navi di Frontex, della Marina militare italiana o da quelle delle marine europee che volontariamente partecipano al dispositivo Ue Eunavfor Med-Sophia.

È fattibile? Negli ultimi mesi non lo è stato. Le ong, contrariamente alla narrazione comune, non sono tante, bensì 10 organizzazioni con 12 navi operative «senza che ci sia mai stata la presenza in contemporanea di tutte le imbarcazioni», ha spiegato in Senato il contrammiraglio della Guardia costiera Nicola Carlone.

La Marina militare italiana, invece, ha chiuso due anni fa, su pressioni europee, l’operazione Mare Nostrum, che aveva salvato 154 mila persone facendo anche ricerca attiva e a oggi gestisce un’operazione di nome Mare Sicuro che si occupa di garantire gli interessi energetici dell’Italia nel Mediterraneo.

Frontex, invece, opera con la missione Triton, che dispone, ufficialmente, di 12 mezzi navali, ma quelle che fanno soccorso in mare non sono più di tre e l’area coperta dall’Agenzia europea di sorveglianza dei confini è molto più vasta della zona dove avvengono i naufragi. Per esempio, coinvolge l’Adriatico fra l’Albania e la Puglia e i traffici illeciti di quella rotta, che nulla hanno a che spartire con le migrazioni.

Da ultimo, EuNavfor Med: la missione militare Ue varata due anni fa è temporanea, la partecipazione degli Stati avviene su base volontaria e il mandato politico ricevuto è quello di mappare e sradicare il network dei trafficanti di uomini, ma non quello del soccorso in mare. Vale anche per loro, ovviamente, l’obbligo di intervenire in situazione di pericolo, come sancito dalla Convenzione Onu di Montego Bay del 1982 e dalla Convenzione Solas di Londra del 1974, ma sono nel Mediterraneo e principalmente con un altro scopo.

Il doppio bluff di Marco Minniti

Se l’Italia e la Ue sono disponibili a triplicare i soldi a disposizione delle loro missioni e delle loro agenzie, oltre ad estenderne il mandato politico, allora sì, in teoria si può chiedere e ordinare alle ong di recarsi in porti non italiani. In assenza di queste decisioni, si tratta di un bluff.

Come era un bluff l’ipotesi di chiusura dei porti e delle acque territoriali alle navi straniere. «Ci sono seri dubbi sulla legittimità internazionale di una scelta simile», ci dice ancora la professoressa De Vittor. «Le norme internazionali sui diritti umani come la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, il Patto sui diritti civili e politici e la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, si applicano non solo nel territorio dello stato, ma in tutte le situazioni sottoposte alla sua giurisdizione, anche extraterritoriale».

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