Val d’Enza, la valle ferita tra dissesto idrogeologico e crisi climatica
Prodotto dal Comitato per la salvaguardia del torrente Enza, con la regia di Alessandro Scillitani e la voce narrante di Wu Ming 2, il film "La valle ferita" apre la discussione sugli interventi necessari per rispondere alla crisi climatica
La Val d’Enza si trova sul versante occidentale della provincia di Reggio Emilia, al confine con quella di Parma. A separare il confine tra le due province c’è il fiume Enza. È una delle valli più scenografiche dell’Appennino emiliano, ma anche una delle più delicate dal punto di vista idrogeologico.
Oggi su quel territorio, a Vetto, si sta progettando di costruire una diga. In realtà, il progetto è di quasi quarant’anni fa, ma la siccità causata dalla crisi climatica e il fabbisogno di acqua in agricoltura lo ha riportato nell’agenda politica.
Se ne parla nel documentario “La valle ferita. Torrente Enza tra dissesto idrogeologico e crisi climatica”, prodotto dal Comitato per la salvaguardia del torrente Enza con la regia di Alessandro Scillitani e la voce narrante di Wu Ming 2.
L’obiettivo è quello di aprire una discussione pubblica sugli interventi che sarebbero necessari per rispondere alla crisi climatica salvaguardando al tempo stesso un territorio già compromesso. Dopo la prima il 3 febbraio a Reggio Emilia, è in corso la definizione di un calendario di proiezioni.
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Val d’Enza: quella diga di Vetto che arriva dall’Ottocento
Della diga di Vetto, un grande sbarramento sul torrente Enza tra le province di Reggio Emilia e Parma, si parlava già a fine Ottocento. Poi nel 1988 si è quasi arrivati a realizzarla, ma i lavori si sono fermati. E sono arrivati i ricorsi e poi le pronunce di Tar di Parma, Consiglio di Stato e Cassazione, che hanno giudicato l’opera (una diga da cento milioni di metri cubi di acqua) «sproporzionata rispetto ai bisogni, incompatibile con i vincoli ambientali e troppo pericolosa per un territorio in zona sismica 2, interessato da una faglia attiva», scrive Wu Ming 2 sul blog della Wu Ming Foundation.
«La nostra battaglia, di ambientalisti, va avanti da allora. In quegli anni, il periodo burrascoso che precedette Tangentopoli, entrò in vigore la Via, la valutazione di impatto ambientale, e il progetto saltò», racconta a Osservatorio Diritti Duilio Cangiari di Università Verde Reggio Emilia, una delle realtà che hanno dato vita al Comitato per la salvaguardia del torrente Enza.
Nel 2017, anno caratterizzato da una fortissima siccità in Emilia-Romagna, la discussione sulla necessità della diga, per garantire il fabbisogno di acqua, è ripartita. Ma nel frattempo la situazione della Valle dell’Enza è cambiata.
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Val d’Enza, la valle fragile
La Val d’Enza è molto delicata dal punto di vista idrogeologico: c’è una faglia sismica che ha provocato terremoti, le rive del torrente sono argillose. Quali potrebbero essere gli effetti su questo territorio di una diga?
«Avrebbe grandi difficoltà dovute alla scarsa stabilità dei versanti, soggetti a movimenti franosi importanti», dice Cangiari, che ricorda come gli eventi meteorici del 2023 hanno provocato oltre 80 mila nuove frane non censite dalla cartografia.
L’Enza, poi, ha un grosso problema di erosione e di ricarica delle falde acquifere. A causa degli sbarramenti costruiti negli anni sul fiume e all’estrazione di materiali litoidi, l’acqua, invece di trasportare nuovi sedimenti che si depositano nel letto, scava le sponde fino a formare un canyon. «Con la conseguenza che il livello del torrente è sceso sotto il livello delle falde. Queste restano più alte, dove l’acqua del fiume non arriva e non le ricarica», dice Cangiari. Insomma, l’impatto della diga sarebbe enorme: altri detriti sottratti al fiume, borghi sommersi, ecosistemi stravolti.
Salviamo il fiume Enza
Dal 2017 al 2024 non è successo granché dal punto di vista amministrativo, ma chi cerca di tutelare il fiume si è mosso: si è costituito il comitato, è stato scritto un manifesto per la salvaguardia del torrente ed è stato realizzato un film per aprire finalmente una discussione sulla situazione della Val d’Enza.
«Quando mi hanno portato verso la parte finale del fiume, a San Polo, dove l’Enza si avvia verso il Po, mi sono accorto del livello di degrado in cui versava il fiume. È evidente che quello che ho visto non ha a che fare con il naturale, ma è legato a comportamenti umani: l’Enza è l’esempio di un modo di gestire il territorio che non tiene conto dei cambiamenti e della necessità di ascoltare la natura per abitarla in modo diverso», dice a Osservatorio Diritti Alessandro Scillitani, il regista, che nel film non presenta una tesi ma cerca di sensibilizzare sulla necessità di pensare insieme a come gestire il territorio.
«Il dibattito non può essere polarizzato tra chi vuole la diga e chi non la vuole. Per me ovviamente è no, ma il tema non è quello, il tema oggi è dare risposte a sollecitazioni ed emergenze che la crisi climatica mette sulle spalle dei cittadini. E per trovare soluzioni è fondamentale ragionare a 360 gradi», spiega Cangiari.
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Cambiamento climatico in Val d’Enza, tante soluzioni possibili
La diga serve per garantire l’acqua necessaria all’agricoltura, tanto più adesso che il cambiamento climatico porta a lunghi periodi di siccità. Si potrebbe costruire una centrale elettrica per garantire energia pulita. Il lago artificiale poi attirerebbe il turismo nella zona. Sono gli argomenti che utilizza chi sostiene la necessità di realizzare un grande sbarramento sull’Enza vicino a Vetto.
«In teoria, la diga è la soluzione più semplice, che risponde agli interessi delle aziende di costruzione e a qualche fornitore di energia elettrica. La soluzione più complessa invece tiene conto di tutti gli elementi di scenario ambientali, con interventi su scala territoriale», dice Cangiari.
Un esempio a cui si può guardare è la sperimentazione di ricarica assistita delle falde che la Regione Emilia-Romagna ha fatto sul fiume Marecchia e che sembra funzionare: rimpinguare le falde sotterranee invece di stoccare l’acqua in superficie risolverebbe il problema dell’evaporazione e quello della subsidenza. Ma serve uno studio di fattibilità.
Tra Parmigiano Reggiano e turismo
I prati stabili (le grandi distese di erba spontanea o seminata da cui si ricava il foraggio per le mucche che producono il latte utilizzato per il Parmigiano Reggiano) vengono irrigati sommergendoli con l’acqua, aprendo le paratie di canali e fossi. Un sistema che consuma moltissima acqua che, dice Cangiari, «potrebbe essere risparmiata. Invece di buttare milioni di euro in una diga, perché non sosteniamo gli agricoltori finanziando metodi innovativi di irrigazione? Studiamo, facciamo i progetti, le strade sono tante, ma l’inerzia generalizzata è pericolosa».
E poi c’è il grande lago artificiale che si verrebbe a creare con la diga. «Anche a San Piero, in Mugello, più di trent’anni fa, quando progettavano il lago di Bilancino, dicevano che avrebbe portato una svolta turistica, e già si preparavano a fondare club nautici e di vela. Invece la svolta è arrivata grazie a un sentiero, la via degli Dei tra Bologna e Firenze, che già esisteva, si trattava solo di segnarlo, accudirlo, parlarne in giro, stampare una mappa», scrive Wu Ming 2 sul blog di Wu Ming Foundation.
Insomma, come dice Scillitani, forse non dovremmo cercare meccanismi di divertimento forzati, «ma attraversare questi luoghi con passo lento assaporando la meraviglia».
Val d’Enza, a che punto è il progetto della valle ferita
Al momento è in corso la prima fase, la realizzazione del documento di fattibilità delle alternative progettuali (Docfap), finanziato dalla Regione Emilia-Romagna con 300 mila euro e dai Consorzi di bonifica di Reggio Emilia e Parma con 200 mila euro, «in cui dovrebbe essere compresa anche l’opzione zero, ovvero l’ipotesi di non costruire la diga», dice Cangiari.
Poi si passa al progetto di fattibilità tecnico-economica, per il quale il ministero delle Infrastrutture ha stanziato 3,2 milioni di euro. Si parla di giugno per la conclusione della prima fase, poi bisognerà vedere se ci sono le risorse per andare avanti.