
Lavoro povero: in Italia colpisce (almeno) 12 lavoratori su 100
Dal 2008 al 2020 l'Italia è stata investita da una crisi dietro l'altra e l'impatto sulle famiglie e sui lavoratori è stato pesante: impoverimento, perdita di potere d'acquisto e di sicurezza sociale. Ecco l'analisi della Campagna Abiti Puliti sul lavoro povero in Italia
Crisi finanziaria e recessione, crisi energetica, pandemia, guerra, inflazione. Dal 2008 al 2020 l’Italia è stata colpita da una crisi dietro l’altra e l’impatto è stato pesantissimo sulle famiglie e sui lavoratori che ne hanno risentito in termini di impoverimento, di perdita del potere d’acquisto e della sicurezza sociale.
E le reti di protezione sociale, storicamente sbilanciate a favore dei lavoratori anziani stabili a tempo indeterminato, si sono rivelate insufficienti per fronteggiare i bisogni di giovani, donne e stranieri, i più numerosi tra i working poor, i lavoratori poveri.
L’analisi è della Campagna Abiti Puliti (la sezione italiana della Clean Clothes Campaign, rete internazionale che riunisce organizzazioni a difesa di diritti umani, lavoratori e sindacati nel settore dell’abbigliamento), che, il 14 febbraio, in una tavola rotonda sulla povertà lavorativa ha diffuso un aggiornamento del suo rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda“, pubblicato nel 2022.
Due anni fa, infatti, l’organizzazione aveva presentato il tema del salario minimo come questione urgente su cui intervenire per affrontare la povertà lavorativa e la disuguaglianza in Italia a partire dalla filiera della moda. E oggi chiama a raccolta cittadini, organizzazioni, sindacati, imprese, ricercatori e studenti per capire quali sono i dati reali sui lavoratori poveri e quali sono le possibili soluzioni.
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Povertà assoluta: i dati Istat
I dati dell’Istat relativi al 2022 parlano di oltre 5,6 milioni di persone (2,18 milioni di famiglie) in povertà assoluta. Un dato in crescita rispetto al 2021 anche a causa dell’inflazione, che ha ridotto il potere di acquisto dei salari. L’Italia è l’unico Paese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) in cui i salari medi sono diminuiti.
La questione non è nuova, come scrive la Campagna Abiti Puliti:
«Un problema strutturale di lunga data, generato dal cambiamento del mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, come emerge plasticamente dalla stessa indagine Istat, la quale mostra come l’incidenza della povertà assoluta riguardi anche chi lavora, con il 14,7% di famiglie operaie e l’8,5% di famiglie con un lavoratore autonomo sotto la soglia di povertà. Avere un lavoro non mette più al riparo dalla povertà, visto che il 50% delle famiglie in povertà relativa include un lavoratore con un reddito insufficiente a soddisfare i bisogni del nucleo familiare».
Questa situazione, come è facile immaginare, non riguarda i manager: nel 1980 quelli più pagati guadagnavano 45 volte lo stipendio di un loro operaio, nel 2008 416 volte e nel 2020 649 volte.
La moda è uno dei settori in cui le disuguaglianze sono più evidenti: in cima alla classifica di Forbes sulle persone più ricche del mondo c’è Bernard Arnault di Lvmh, multinazionale del lusso che produce anche in Italia, e sui 64 miliardari italiani presenti 25 sono imprenditori della moda.
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Lavoro povero in Italia: l’identikit dei più vulnerabili
Nel nostro Paese il 12% dei lavoratori sono working poor, persone che pur lavorando sono povere e non riescono a vivere in modo dignitoso: sono circa 3 milioni di persone che guadagnano meno di 11.500 euro netti l’anno, cioè poco più di 950 euro al mese.
La pandemia ha contribuito ad aggiungere altre 400 mila persone ai working poor e, scrive l’organizzazione, «se la soglia del reddito per essere considerati tali si alzasse a 12 mila euro, un valore evidentemente ancora molto basso, un terzo dei lavoratori vivrebbe in povertà nel nostro Paese».
Donne, giovani, migranti e lavoratori autonomi con contratti atipici e part-time involontari sono i più vulnerabili del mercato del lavoro e quelli più a rischio povertà.
La povertà lavorativa è un fenomeno che va oltre la questione salariale e dipende anche da fattori individuali, familiari e istituzionali e dalla configurazione del mercato del lavoro, in particolare nella filiera della moda.
In pratica, spiega Abiti Puliti, la povertà lavorativa dipende da quanto si guadagna all’ora, da quante ore si lavora in un mese, dalla continuità occupazionale, dal segmento della filiera in cui si è impiegati: nel caso della moda è diverso lavorare nello stabilimento di proprietà del brand o presso un terzista attivo nella sub-fornitura che deve accettare commesse a prezzi che con consentono di pagare in modo adeguato i costi di produzione, in primis il costo del lavoro.
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Salario minimo contro il lavoro povero: necessario, ma non sufficiente
Nel 2002 l’organizzazione parlava di salario minimo come diritto universale, oggi sottolinea che è la risposta necessaria in un contesto globalizzato in cui il sindacato ha perso potere contrattuale e prosperano contratti irregolari e lavoro nero. Ma non è sufficiente.
Servono anche misure di politica economica e fiscale, di natura legislativa e contrattuale, a livello nazionale e internazionale, che cambino la struttura economica del Paese e dei meccanismi distributivi della ricchezza.
Il concetto di salario dignitoso di base a cui fa riferimento Abiti puliti trova il suo fondamento nei diritti umani, un concetto che non è subalterno alle logiche di mercato – e in questo si differenzia dal salario minimo legale – ma che è ancorato ai bisogni reali dei lavoratori e delle loro famiglie consentendo loro di soddisfare i bisogni primari (cibo, casa, salute, vestiti, istruzione, trasporti) e anche di risparmiare. Questo salario corrisponde alla retribuzione di base netta calcolata senza le maggiorazioni per gli straordinari, prima di incentivi e indennità e dopo le tasse, tenendo conto solo dei compensi monetari.
Nel 2024 – ha calcolato Abiti puliti – questo valore equivale a 2 mila euro netti al mese: ipotizzando una settimana lavorativa di 40 ore è pari a 11,5 euro all’ora.
All’aumento delle soglie salariali dovrebbe corrispondere però anche una revisione delle pratiche commerciali delle grandi imprese committenti e della Pubblica amministrazione che impongono prezzi troppo bassi ai fornitori.
Come abolire il lavoro povero in Italia
Oltre al salario dignitoso di base, secondo l’analisi occorre però adottare anche misure che garantiscano lavori stabili, non solo nella filiera della moda.
Qualche esempio? Introdurre strumenti di integrazione e sostegno dei redditi da lavoro più bassi (i cosiddetti in-work benefit), avviare un percorso di riduzione collettiva degli orari di lavoro a parità di salario dignitoso di base, rivedere l’attuale modello di produzione e consumo basato sulla massima compressione dei costi e sulla iper-produzione di merci di bassa qualità ma ad alto impatto su persone, clima e ambiente, come accade nell’industria della fast fashion.
Per la Campagna Abiti Puliti, però, la mancata approvazione da parte del Parlamento italiano di una legge sul salario minimo rappresenta «un segnale preoccupante circa l’effettiva volontà politica di dare una risposta concreta ai milioni di lavoratori poveri del nostro Paese».