Ex Ilva: a Taranto il benzene porta cancro e leucemie
Una rielaborazione dei dati ambientali relativi al quartiere Tamburi di Taranto, dove si trova l'ex Ilva, dimostra la crescita del cancerogeno benzene negli ultimi otto anni. Il nuovo studio denuncia la mancata "ambientalizzazione": chi abita vicino al polo corre un alto rischio sanitario
Centinaia di dati raccolti dalla centralina dell’aria dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) di via Orsini, nel quartiere Tamburi di Taranto, dove opera l’ex Ilva, sono stati messi in ordine dall’associazione Peacelink. Una lunga retta che sale e unisce tutti i valori del benzene presente nell’aria tra gennaio 2016 e dicembre 2023.
«Il benzene esce dalla fabbrica da dispersioni fuggitive, non dai camini, e finisce direttamente nel quartiere. Quando il vento soffia da nord est investe direttamente le case di Tamburi e con lui arriva il benzene», dice a Osservatorio Diritti Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, che ha commissionato questa ricerca.
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Ex Ilva di Taranto: benzene nel quartiere Tamburi
Gli impianti che producono acciaio nascono negli anni ’60 direttamente nel quartiere Tamburi, nella zona nord della città di Taranto. La lavorazione di questo materiale produce emissioni inquinanti, sostanze che vengono convogliate nei camini e monitorate costantemente dalle istituzioni.
«Ma ci sono centinaia di fughe più basse, emissioni ad altezza uomo che non sono catturate dai camini e finiscono direttamente nelle case. Questo lo diciamo da anni, ora abbiamo costruito un primo strumento utile anche alle istituzioni per capire la qualità dell’aria della nostra città», prosegue Marescotti.
Il benzene è rilasciato durante le fasi della lavorazione dell’acciaio ed è un “cancerogeno certo“. Lo studio Sentieri, una raccolta dati voluta dal ministero della Sanità sulle morti e patologie in alcuni centri italiani, ha pubblicato nel 2019 l’ultimo report sulla salute degli abitanti di Taranto ed evidenzia eccessi di leucemia in età pediatrica.
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Dati e strategie fallite: la mancata “ambientalizzazione”
«Per fortuna Taranto è una delle città italiane più monitorate d’Italia, così possiamo sapere con certezza cosa stiamo respirando e da quanto», spiega Marescotti. Il lavoro dell’associazione, costruito dall’analista di dati Antonio Poggi, conferma però la mancata attuazione di un piano governativo voluto dall’allora ministro Galletti e chiamato artificiosamente “ambientalizzazione”.
Il termine, dal tono positivo, doveva disegnare la nuova azione di risanamento del quartiere Tamburi voluta dallo Stato. «Sull’Ilva andremo avanti con l’ambientalizzazione: dall’ultima verifica dell’agosto 2015 è stato riscontrato che l’80% delle prescrizioni previste dall’Aia sono state rispettate e nella Legge di stabilità ci sono 800 milioni per proseguire», aveva annunciato il ministro dell’Ambiente Gianluca Galetti durante una visita a Taranto nel 2016. Da quell’annuncio, però, è partita la raccolta dati sul benzene, che dopo otto anni ha dimostrato la totale inefficacia di questo piano.
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Taranto, rischio sanitario intorno all’ex Ilva
A maggio 2023 il sindaco della città, Rinaldo Melucci, aveva già pubblicato un’ordinanza che imponeva alla proprietaria dell’impianto, Acciaierie d’Italia, di ridurre in 30 giorni le emissioni di benzene nell’aria. Un’ordinanza che doveva portare alla chiusura del sito per motivi sanitari. Un’ordinanza disattesa, a quanto pare.
«A Taranto ci sono diverse ordinanze per tutelare la popolazione dalle sostanze tossiche dell’Ilva. Quando il vento arriva da Nord Est l’Asl allerta le scuole ed alcuni plessi vengono addirittura chiusi. Ma come dimostra la nostra retta, nulla è cambiato», denuncia l’attivista ambientale.
La stessa Asl aveva inviato al sindaco Melucci una relazione dove si indicava un rischio sanitario per la fascia infantile per un’esposizione tra 1 microgrammo al metro cubo di benzene e il limite di legge di 5 microgrammi.
«Se qui venissero applicati i limiti della California (0,05 microgrammi per metro cubo) riguardo al benzene, lo stabilimento sarebbe giù chiuso» commenta Marescotti.
Le proteste dell’indotto e le indagini della magistratura
In questi giorni migliaia di operai dell’indotto dell’Ilva, ora Acciaierie d’Italia e di proprietà ancora di Ancerol Mittal, sfilano per le strade del quartiere Tamburi vicino al polo chimico per chiedere certezze. L’Ilva è nuovamente a rischio economico dopo che la multinazionale Ancerol Mittal ha chiesto la gestione in amministrazione straordinaria, che comporterebbe la cassa integrazione per centinaia di operai e lo stallo di alcuni pagamenti verso le ditte esterne.
«La fabbrica è morta, non c’è più mercato per noi italiani riguardo l’acciaio. Se il punto di equilibrio è una produzione di 6 milioni di tonnellate l’anno, ora con due milioni produciamo solo inquinamento e leucemie», conclude Marescotti.
Il 10 gennaio i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce, per ordine dei pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Francesco Ciardom, sono entrati nello stabilimento per acquisire la documentazione relativa alle emissioni, in particolare del benzene.