Sfruttamento lavorativo in Italia: la situazione oggi
Il grave sfruttamento lavorativo nasconde spesso una fitta rete criminale dietro di sé. Ne abbiamo parlato con Giuliano Battiston, direttore editoriale di Emersioni, una rivista che ha dedicato tutto l'ultimo numero a questo tema
Difficile da definire, diffuso in settori molto diversi e con alle spalle, spesso, una rete criminale.
È il grave sfruttamento lavorativo raccontato dalla rivista Emersioni, alla sua seconda edizione dopo il lancio nel 2022 con un numero su tratta e sfruttamento sessuale.
Come nella prima edizione, è stata realizzata all’interno di Link, un laboratorio «per imparare a scrivere di cose difficili», promosso da Città metropolitana di Milano nell’ambito del progetto “Derive e Approdi” insieme all’agenzia cheFare e all’organizzazione Codici ricerca e intervento. A questa edizione hanno partecipato donne tra i 16 e i 26 anni.
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Sfruttamento lavorativo in Italia: in quali settori è più diffuso
«Ciò che è emerso è quanto sia difficile definire il grave sfruttamento lavorativo. Anche Maria Grazia Giammarinaro, esperta sui temi della tratta e dello sfruttamento sessuale intervistata per la rivista, ha parlato della difficoltà di individuare criteri definitivi. È una sorta di continuum in cui le violazioni possono riguardare il diritto al lavoro e i diritti umani», racconta a Osservatorio Diritti Giuliano Battiston, giornalista e direttore editoriale della rivista.
I settori in cui si registrano più spesso casi di grave sfruttamento lavorativo sono l’edilizia, la logistica delle merci, il lavoro di cura e l’agroalimentare.
«Nel caso della cura delle persone si possono determinare condizioni di sfruttamento, privazione della libertà di movimento e forme di ricatto che sono più difficili da far emergere, dato che stiamo parlando di lavoro che si svolge negli spazi domestici», aggiunge Battiston.
Dietro i casi di grave sfruttamento lavorativo poi c’è, spesso, la presenza delle reti criminali, «che approfittano dei deficit delle reti istituzionali nel sostenere le persone vulnerabili per dare vita a un’economia predatoria, parassitaria, che sfugge ai controlli».
Una redazione di redattrici under 26
Per la seconda edizione di Emersioni, la redazione temporanea ha coinvolto 14 ragazze di età compresa tra i 16 e i 26 anni (nella prima avevano tra i 18 e i 28 anni), che hanno dato voce a storie ed esperienze del territorio di Milano, toccando anche le rotte migratorie che arrivano in Italia dal Nord Africa e dal Bangladesh, e affrontando gli aspetti psicologici, urbanistici, sociali ed economici che possono favorire lo sfruttamento e indagando le difficoltà a farlo emergere.
Sono 18 gli articoli che compongono il secondo numero, tra i quali un fotoreportage da una casa di accoglienza per uomini in difficoltà, il profilo di una vittima di grave sfruttamento lavorativo, un approfondimento sul diritto alla salute mentale, un viaggio tra i lavoratori irregolari di Legnano, l’analisi delle percezioni della generazione Z sullo sfruttamento lavorativo, un’intervista con l’amministratore giudiziario legato al caso StraBerry e una al capo dell’Ufficio Politiche sociali di Milano per la Cgil.
«La rivista è l’esito di un percorso di ricerca collettivo, di discussioni nella redazione e con le interlocutrici di Derive e Approdi, di un lavoro giornalistico sul campo, nei luoghi paradigmatici dello sfruttamento e della prevenzione. È il frutto di una continua riflessione sul linguaggio da usare o da evitare e sul contesto economico e politico che favorisce il grave sfruttamento lavorativo», spiega Battiston.
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Sfruttamento lavorativo dei migranti, ma non solo
Ma che percezione hanno i giovani dello sfruttamento in ambito lavorativo? Se ne parla in Generazione Z, il reportage realizzato da Anita Biratoni e Irene Mandrini a Busto Arsizio (Varese).
«Dalle testimonianze raccolte tra i loro coetanei è emerso che per i giovanissimi lo sfruttamento lavorativo riguarda sì le persone migranti che hanno uno status più precario, una cittadinanza meno riconosciuta e sono più sfruttabili, ma riguarda anche loro stessi, sfruttati perché hanno meno conoscenza di quali diritti possono rivendicare nei confronti dei datori di lavoro. C’è quindi un’autopercezione di essere parte dello sfruttamento», dice Battiston.
In un altro articolo viene raccontata la visita in un Cas, un Centro di accoglienza straordinaria, dove una delle associazioni della rete Derive e Approdi fa attività di prevenzione per spiegare alle persone migranti che vi sono accolte quali sono i loro diritti all’esterno di quella struttura e in ambito lavorativo.
«I ragazzi che abbiamo incontrato ci hanno detto di conoscere quei diritti, ma anche che per loro, in quanto stranieri, non valgono. C’è la consapevolezza del fatto che diritti che dovrebbero essere uguali per tutti abbiano invece un’applicazione diversa a seconda che tu sia un ragazzo appena arrivato dal Nord Africa o un giovane di Milano con una rete familiare e sociale».
Il contesto come fattore che facilita lo sfruttamento
Tra gli articoli c’è un’intervista a Bertram Niessen dell’agenzia cheFare, dalla quale emerge come alcune caratteristiche della città di Milano possono favorire dinamiche di sfruttamento, come ad esempio la difficoltà di trovare una casa e l’insicurezza abitativa.
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Come parla la stampa dello sfruttamento lavorativo in Italia
Come si parla sui media di sfruttamento lavorativo? Per Battiston prevalgono i toni enfatici o che producono un processo che tende a rappresentare i più vulnerabili solo come vittime, «un processo che noi abbiamo cercato di confutare perché la vittimizzazione racconta solo una parte della storia. È vero che le persone più vulnerabili spesso sono incastrate in processi di sfruttamento, ma esistono anche molti tentativi di uscirne, anche se con fatica», spiega il giornalista.
È il caso di “Uscire dallo sfruttamento si può”, l’articolo di Micol Motta che racconta la storia di Mostafa, 35enne egiziano che è stato vittima di sfruttamento lavorativo ma che è riuscito a uscirne grazie all’aiuto della Casa dei diritti, la struttura del Comune di Milano che fornisce servizi per promuovere e garantire i diritti umani. «I percorsi di affrancamento sono possibili, ma è impossibile farlo da soli. Servono reti di sostegno», conclude Battiston.