Total trust, il film di Jialing Zhang buca lo stato di sorveglianza cinese

L’ipertecnologia e il sistema di credito sociale nel documentario Total trust che denuncia il controllo autoritario di Pechino su attivisti per i diritti umani, giornalisti e voci critiche del governo. Il film è diretto da Jialing Zhang

Riconoscimento biometrico, riconoscimento vocale, telecamere cctv e i propri vicini di casa pronti a riportare al governo ogni tuo movimento. Sono alcuni degli elementi dello stato di sorveglianza in Cina denunciati in Total trust, documentario diretto da Jialing Zhang premiato con la Menzione speciale della giuria alla decima edizione del Film Festival Diritti Umani Lugano e vincitore del Best International Documentary al NYC DOC, principale festival di cinema documentario degli Stati Uniti.

Il titolo è sarcastico, ma con un fondamento di verità. Durante la pandemia la fiducia del popolo cinese nei confronti del potere centrale è arrivata al 98%, secondo le fonti ufficiali.

«È ridicolo – dice a Osservatorio Diritti Micheal Grotenhoff, produttore del film – fondare la fiducia su un sistema di sorveglianza, quando dovrebbe essere esattamente l’opposto. Per questo abbiamo scelto questo titolo, per ribadire che le due cose non possono stare insieme: non puoi costruire la fiducia sull’ipercontrollo».

Total trust, il trailer del film di Jialing Zhang

Storie di attivisti per i diritti umani

Il documentario buca di fatto lo stato di sorveglianza cinese, raccontando da vicino le storie e le battaglie di due avvocati e una giornalista – tre vittime della repressione avviata dal governo nell’estate 2015, contro avvocati e attivisti per i diritti umani. Una repressione resa possibile anche dall’ingente uso di tecnologie per la sorveglianza di massa.

La prima storia che si incontra nel documentario è quella dell’avvocato Weiping Chang, difensore di diverse persone in causa contro il governo. Chang è stato arrestato nel gennaio 2020 con l’accusa di sovversione dei poteri dello Stato. Rilasciato dopo una decina di giorni, è stato poi nuovamente incarcerato per aver denunciato pubblicamente con un video le torture subite durante l’arresto e la pesante sorveglianza di cui è stato oggetto dopo il rilascio.

Il documentario racconta questo caso seguendo Zijuan Chen, moglie di Chang, e il figlio Tutu. Permette di entrare nella loro casa e nella loro quotidianità, fatta di nostalgia e ancora sorveglianza nei loro confronti. E un forte senso di ingiustizia che non riuscirà a impedire la condanna definitiva nei confronti di Chang, in un processo a porte chiuse, a tre anni e mezzo di detenzione.

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La regista di Total trust, Jialing Zhang – Foto: ©Filmtank

La storia di Wang Quanzhang in Total trust

Nell’estate del 2015 la Cina mette in atto il giro di vite passato alla storia come “709 crackdown“. Tra le centinaia di avvocati e attivisti per i diritti umani che finiscono nella morsa di Pechino, c’è anche Wang Quanzhang. Avvocato difensore dei diritti umani, per lui si era mossa anche l’Unione europea, che nell’aprile 2020 aveva salutato positivamente il suo rilascio, augurandosi pubblicamente che fosse incondizionato.

«L’Unione Europea ritiene che i suoi diritti ai sensi della legislazione cinese e degli impegni internazionali non siano stati rispettati durante il processo e la detenzione», citava la dichiarazione della portavoce, auspicando che si indagasse sulle torture denunciate da Wang.

Total trust ci porta dentro le mura domestiche della famiglia di Wang e nel pianerottolo del loro appartamento dove ai vicini è chiesto di controllare – e impedire – ogni movimento.

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Scena del film Total Trust

La regista Jialing Zhang denuncia il sistema di credito sociale

La seconda potenza del mondo è un gigante tecnologico. Niente può sfuggire alle ultime tecnologie della sorveglianza e ai suoi algoritmi, in grado di monitorare, grazie al riconoscimento facciale, anche stati d’animo come soddisfazione, stanchezza o rabbia. E nei pochi anfratti dove la tecnologia non può arrivare, arrivano le persone.

Dal 2015, l’operazione Sharp Eyes punta sulla collaborazione di ufficiali sottopagati e cittadini volontari per controllare e riportare al governo le poche informazioni che sfuggono al monitoraggio continuo dei telefoni, delle app e delle migliaia e migliaia di telecamere pubbliche.

A questo si aggiunge il sistema di punteggio sociale messo a punto dal governo, che impatta direttamente sulla vita di cittadine e cittadini e sulle loro famiglie. Passare col rosso, diffondere rumors online, contestare il governo sono alcune tra le più di mille infrazioni che fanno perdere punti. Ma i modi le possibilità per guadagnarne sono molte di meno, neanche un paio di centinaia. E tra queste c’è il volontariato.

Sophia Xueqin Huang

Il documentario segue da vicino anche la storia della giornalista Sophia Xueqin Huang. Dopo aver riportato le violenze sessuali di alcuni uomini di potere in Cina, ha dovuto difendersi in tribunale ed è stata assistita dallo stesso avvocato Weiping Chang.

Anni e anni di controlli da parte dello Stato, hanno fatto interiorizzare l’autocensura nelle persone come nei media, racconta Sophia Xueqin Huang nel documentario:

«I più coraggiosi sono trattenuti dal governo, altri hanno deciso di fare un passo indietro».

Lei, come altri, nel mezzo tra le due categorie, resiste e continua a scrivere e denunciare fino al settembre 2021, quando viene arrestata a Guangzhou con l’accusa di sovversione e un tempismo perfetto da parte delle autorità: solo il giorno prima aveva pianificato il viaggio nel Regno Unito per un master.

«È una giornalista giovane, ma molto brava e coraggiosa. Durante il processo le hanno chiesto di ammettere di aver fatto atti di sovversione nei confronti del potere centrale, per avere uno sconto di pena, ma ha rifiutato fermamente in nome della giustizia e della libertà di espressione. E per questo probabilmente resterà dentro per un altro paio di anni», dice a Osservatorio Diritti Micheal Grotenhoff della casa di produzione Tankfilm.

Il suo arresto, però, non ha nulla a che vedere con il film, ne è sicuro: «Sophia sarebbe stata arrestata comunque. Per tutti quelli che hanno partecipato c’era una sorta di linea rossa: nessuno dei protagonisti doveva passare ulteriori guai per colpa del documentario».

La crew anonima di Total trust

Non è stato facile realizzare questo film, secondo il racconto di Micheal Grotenhoff: «Hai bisogno di un sacco di esperienza e posso dire che la regista Jialing Zhang ha un network fantastico. Si è già occupata di tematiche sensibili, ma vive negli Usa e ha diretto tutto da remoto. Non posso entrare nei dettagli per motivi di sicurezza, ma Jialing sa come gestire queste cose in maniera sensibile e, molto importante, ha sempre una visione più ampia. Non voleva fare un film sulla Cina, ma mostrare la sorveglianza di massa come una sorta di malattia globale esplosa con le potenzialità delle evoluzioni tecnologiche. La Cina è lo specchio di questa situazione: mostra quello che si può fare in una dittatura quando c’è questa sorta di potere non controllato che può essere abusato dai governi».

I titoli di coda di Total Trust sono una sequela di nomi di fantasia, ognuno seguito da una specifica: anonimo. Anche così si buca il sistema di sorveglianza cinese, sviluppando rigidi protocolli di sicurezza per la realizzazione del film.

«Tutti i membri del team sono stati preparati con linee guida e istruzioni su cosa fare se interrogati dalla polizia di sicurezza. Di tutto il filmato sono state realizzate più copie, che sono state poi nascoste in luoghi sicuri prima di essere ritirate dalle persone designate. I nostri produttori sul campo erano travestiti da venditori, addetti alle consegne o addetti alle riparazioni; le attrezzature erano nascoste in enormi scatole per traslochi o carrelli della spesa», ha raccontato la regista Jialing Zhang.

«Crescendo, non avrei mai pensato che un giorno sarei stata presa di mira ed etichettata come “piantagrane” dalle autorità cinesi», scrive Jialing Zhang nelle sue note di regia. «Tutto quello che ho sempre cercato di fare è fare film onesti, sia sui diritti dei lavoratori, sulla politica del figlio unico o sulla pandemia. Ma l’autoritarismo non ammette domande. Non appena iniziamo a porre domande o a pretendere la verità, siamo considerati voci devianti ed entriamo negli occhi attenti del governo. Oltre a ciò, la propaganda cinese sta diventando sempre più sofisticata. Cineasti formati a livello internazionale, esperti nelle tecniche di narrazione universale, vengono assunti per produrre rappresentazioni emotive della Cina per influenzare positivamente la percezione del mondo. Questo secondo me è un altro pericolo da tenere sott’occhio».

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