Carcere di San Gimignano: “tortura di Stato” contro detenuto indifeso

I giudici hanno stabilito in una sentenza di primo grado che nel carcere di San Gimignano ci fu "tortura di Stato" contro un detenuto tunisino indifeso. Condannati cinque poliziotti penitenziari, che faranno ricorso contro la decisione dei magistrati

Una «aberrante opera di “pedagogia” carceraria», sulla pelle di un detenuto tunisino. La demolizione dello status di persona e del principio-valore della dignità. La funzione pubblica trasformata in strumento di prevaricazione e sopruso. Maltrattamenti contrari al senso di umanità e offensivi delle istituzioni pubbliche, oltre che della vittima.

Così il tribunale di Siena definisce e inquadra l’operato di cinque poliziotti penitenziari del carcere di San Gimignano, processati e condannati in primo grado a pene comprese tra 6 anni e 6 mesi e 5 anni e 10 mesi, per ora ritenuti responsabili di tortura e, a vario titolo, di lesioni, minacce gravi, falso e abuso di autorità (giudizio che potrebbe essere ribaltato in gradi successivi).

Atto di forza immotivato e dimostrativo: fu “tortura di Stato”

Nelle 257 pagine di motivazioni della sentenza, depositata a settembre e destinata a essere impugnata in appello, si ricostruiscono le vicende al centro del procedimento e le responsabilità (da ritenersi presunte, fino al verdetto definitivo) degli imputati (e di dieci loro colleghi sottoposti a giudizio abbreviato, anche loro condannati in prima battuta).

Nella casa di reclusione toscana, secondo i giudici del collegio, ci fu «tortura di Stato», un atto di forza a carattere dimostrativo e contro il detenuto meno pericoloso della sezione.

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Foto: via Pixabay

Pomeriggio di vessazioni nel carcere di San Gimignano

Il pomeriggio dell’11 ottobre 2018, ripresi dalle telecamere di sorveglianza. quindici agenti, assistenti e ispettori penitenziari prelevarono a forza un inerme detenuto nordafricano all’uscita della cella 4 lato A del reparto isolamento. L’uomo stava andando a fare la doccia, “armato” solo di bagnoschiuma e asciugamano.

Venne agguantato sulla soglia, trascinato e strattonato lungo tutto il corridoio, preso a pugni in testa, afferrato per la gola, sottoposto ad una grave torsione ad un braccio, spintonato e di nuovo trascinato nello stesso corridoio, scaraventato nella cella 19 del lato B della sezione, percosso, lasciato in mutande per tutto il pomeriggio, la sera e la notte, privato anche delle coperte.

Il racconto di un testimone

Oltre alla prevaricazione fisica, le violenze verbali. Un testimone ha raccontato:

«Offendevano la madre, offendevano la razza e lo picchiavano… “Razza di merda” e continuavano ad andare avanti… “Figlio di puttana, perché non te ne torni al tuo paese?” … Ho sentito i lamenti che lo picchiavano, l’hanno tirato dalla cella… Per me è una cosa disumana quello che hanno fatto… Lui si alzava, cadeva, si alzava e cadeva e l’hanno portato via… Caduto da piedi, si alzava, cadeva, si alzava, cadeva e lo picchiavano…».

Detenuto sottoposto a dolori gratuiti, sofferenze e sadismo

Il malmenato fu bloccato a terra per più di 40 secondi da un ispettore, uno dei condannati. «Con accurata professione di sadismo – parole dei giudici – ha posto le ginocchia all’altezza della zona sottoscapolare e della schiena del detenuto, in particolare sul tratto lombare del rene sinistro, esercitando una soffocante pressione ponderale, tramite il suo soverchiante peso pari 135 chili», il tutto mentre un assistente capo teneva il carcerato per il collo.

«Quel che le videoregistrazioni consegnano – rimarcano sempre i magistrati di primo grado – è l’immagine di un recluso del tutto inoffensivo al quale viene imposta, senza che ve ne fosse motivo se non quello di infliggergli gratuiti dolori e sofferenze, la posizione di decubito, nota come posizione “ventrale” o “ventre a terra”».

Spedizione punitiva nel carcere di San Gimignano

Non si trattò di un uso legittimo della forza, ammesso dall’ordinamento. Fu una «spedizione punitiva».

«Quanto emerso corrisponde ad un ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità e di ostentato disprezzo nei confronti di una persona detenuta, praticato per giunta in assenza non solo di qualsivoglia rivolta o sommossa in atto, ma finanche del benché minimo indice o cenno di atteggiamento violento o aggressivo».

Rapporti di forza in carcere

Lo scopo fu quello di «esibire manifestazioni di dominio e riaffermare così rapporti di forza minacciati e messi in discussione da disordini proteste attuate da altri detenuti presenti nel reparto isolamento e, quindi, in funzione di supposta deterrenza rispetto a comportamenti scorretti e mal tollerati, a guisa di aberrante e perversa forma di “pedagogia carceraria”».

Una sorta di monito indiretto per alcuni detenuti del reparto sicurezza, appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso o camorristico, a fronte di un clima di tensione e di protesta da loro creato per ottenere il trasferimento in un altro istituto.

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Foto: via Pixabay

Chi è il detenuto vittima delle violenze

Lo straniero vessato, 31 anni, in carcere per piccolo spaccio di cannabis, non era colpevole di nulla. Aveva osato chiedere un telecomando per accendere la tv, dopo essere stato trasferito illegalmente e arbitrariamente nel reparto di isolamento, ammonito dalla direzione per una lieve e innocua violazione del regolamento.

La scelta cadde su di lui, si argomenta nelle motivazioni della sentenza, per la corporatura estremamente esile, la fragilità, una disagiata condizione psichica, l’estrema vulnerabilità. Non aveva collegamenti o sostegni da altri detenuti e fuori non c’erano neppure familiari, parenti o conoscenti cui avrebbe potuto rivolgersi e dai quali avrebbe potuto essere supportato.

E per almeno cinque giorni, post abusi dell’11 ottobre, fu tenuto segregato in cella ben oltre il previsto limite massimo e invalicabile, subendo un trattamento contrario al senso di umanità.

Mistificazione e occultamento dei fatti nel carcere di San Gimignano

La denuncia delle vessazioni partì da una educatrice, poi attaccata e censurata dalla direttrice dell’istituto Loredana Stefanelli, perché in sua assenza si era permessa di rivolgersi direttamente al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, parlando con la vice dirigente. Venne attivata, sempre da personale dell’area educativa, anche la magistratura di sorveglianza.

I file- video con le scene incriminate, come è successo per i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, per ora hanno fatto la differenza. Sono finiti agli atti dell’inchiesta e al dibattimento assieme alle altre fonti di prova.

Invece, dice la sentenza, i poliziotti penitenziari si adoperarono per «consegnare e offrire alle autorità superiori e agli inquirenti una contro-narrazione e una falsa rappresentazione di quanto effettivamente avvenuto».

Una distorta concezione della solidarietà di corpo

I carcerieri in divisa tentarono di «insabbiare sul nascere ogni avvio di indagine e inchiesta», con «omertà, una distorta concezione della “solidarietà di corpo”, mistificazione e collusione, finalizzate tutte alla costruzione di una “comune linea” che tutti i coinvolti avrebbero dovuto tenere e seguire».

Le intercettazioni telefoniche hanno rafforzato l’impalcatura delle accuse, captando conversazioni di interesse anche per aspetti apparentemente minori. Uno degli imputati, ad esempio, si rammarica in dialetto napoletano di non avere “scassato sano sano” il detenuto tunisino.

Salvini solidarizzò con gli agenti, non con la vittima

Partite le indagini, e per il nuovo reato di tortura, l’allora ex ministro dell’Interno Matteo Salvini si presentò al carcere di San Gimignano per solidarizzare con agenti e graduati sotto inchiesta e si fece fotografare all’esterno in uno scatto di gruppo postato su Facebook.

Poi tornò al penitenziario, dopo le dieci condanne in abbreviato, e di nuovo si schierò a sostegno di processati e colleghi.

Un esponente di punta di Fratelli d’Italia, in occasione dell’ultimo processo, ha espresso “sconcerto” per la decisione del ministero di Giustizia di costituirsi parte civile.

Imputati sospesi dal servizio o in pensione

Stando a fonti sindacali, interpellate a seguito della pubblicazione delle motivazioni, i quindici indagati risultano sospesi dal servizio, tranne i due andati nel frattempo in pensione. Per tutti, o quasi, gli avvocati difensori avevano annunciato l’intenzione di ricorrere in appello, dove sperano di ribaltare le conclusioni – provvisorie – dei giudici senesi.

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