Richiedenti asilo: hanno diritto all’accoglienza, ma vivono in strada

Con la legge Piantedosi non possono entrare nel sistema di accoglienza gestito dagli enti locali, ma sono destinati ai Cas, i centri prefettizi. A Parma 11 hanno vinto i ricorsi per l'accoglienza, ma alcuni dormono ancora sul marciapiede. E le associazioni scrivono al prefetto

A fine giugno l’associazione Ciac onlus di Parma denunciava che, in via Cavestro, proprio davanti alla loro sede, dormiva da qualche tempo un gruppo di persone, per la maggior parte originarie del Pakistan e del Bangladesh.

Si trattava di migranti arrivati in Italia attraverso i Balcani che avevano presentato la richiesta di protezione internazionale alla questura di Parma.

Erano richiedenti asilo, che dormivano su un marciapiede nel centro della città.

«Tutti coloro che si vedono in via Cavestro hanno presentato alla Prefettura la richiesta di inserimento nei Cas», dice Ciac onlus, che, insieme ad altre realtà del territorio, ha scritto una lettera al prefetto per chiedere un’accoglienza dignitosa per queste persone.

A distanza di alcune settimane, alcune di loro sono ancora lì, altre si sono aggiunte e dalla prefettura non c’è stata alcuna risposta.

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Manifestazione per i diritti dei migranti – Foto: Alisdare Hickson (via Flickr)

Altro che accoglienza: richiedenti asilo in strada dopo aver vinto i ricorsi

Al momento sono una ventina le persone che sono in strada a Parma, monitorate dal Ciac. «Sei hanno già formalizzato la domanda di asilo a gennaio, altre 14 aspettano da maggio di poterlo fare. Tra loro ci sono persone che hanno vinto i ricorsi al tribunale e hanno diritto all’accoglienza», racconta Gazmir Cela, responsabile dell’area legale del Ciac.

A gennaio sono stati presentati (e vinti) 11 ricorsi presso il tribunale di Bologna per chiedere che la richiesta di asilo di altrettante persone venisse registrata.

«Per la questura serviva una dichiarazione di domicilio per registrare la richiesta, ma visto che queste persone dormivano per strada si dichiarava incompetente e rimandava alla prefettura, che non rispondeva. Alcune persone attendevano da mesi di essere registrate», spiega l’avvocato Calogero Musso, che ha seguito i ricorsi insieme ai legali dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) di Parma.

L’intervento del Ciac ha permesso a queste persone di eleggere il domicilio presso la sua sede e di usare la Pec dell’associazione per le comunicazioni, poi il tribunale di Bologna ha smontato le richieste della questura.

«Il regolamento di attuazione del Testo Unico sull’immigrazione infatti esonera dall’obbligo di dichiarare un domicilio nella domanda di asilo. Il giudice ha anche preso una decisione rivoluzionaria: ha chiarito che il diritto all’accoglienza è un diritto soggettivo perfetto e in caso di lesione la competenza è del tribunale civile e non del Tar, come prevede la legge Piantedosi. E ha ordinato alla prefettura di predisporre l’accoglienza», spiega l’avvocato.

Tre di quegli 11 richiedenti asilo sono stati accolti, ma a centinaia di chilometri di distanza da Parma. «Sono stati inviati in Calabria. Mi hanno raccontato di essere abbandonati a se stessi in condizioni pessime. Uno nel frattempo è stato trasferito in Piemonte, degli altri due non ho notizie aggiornate».

Per gli altri 8, nonostante il ricorso vinto, non è cambiato nulla: le ordinanze del tribunale non sono state eseguite e loro sono ancora in strada.

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Manifestazione per i diritti dei migranti – Foto: Alisdare Hickson (via Flickr)

Legge Piantedosi: significato della nuova norma per i richiedenti asilo in Italia

Il decreto 20/2023, adottato a marzo dal governo Meloni e convertito nella legge 50/2023 (legge Piantedosi) a maggio, ha introdotto una serie di modifiche al sistema di accoglienza.

Una di queste stabilisce che le persone richiedenti asilo – a eccezione di chi già è inserito nei progetti, degli ucraini e degli afghani arrivati con i progetti di evacuazione – non possono più essere inserite nel Sai, il Sistema di accoglienza diffusa gestito dagli enti locali.

Ora queste persone vanno collocate nei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria gestiti dalle prefetture, strutture di grandi dimensioni dove sono garantite solo l’assistenza sanitaria e sociale e la mediazione linguistico-culturale.

È prevista anche la possibilità di accogliere i richiedenti asilo in strutture temporanee, nel caso in cui sia esaurita la disponibilità di posti nei Cas. «La preoccupazione è che queste misure diventino l’ordinario a causa della cronica assenza di posti nei centri di accoglienza prefettizi e che si legittimi l’accoglienza in capannoni per periodi lunghi e in condizioni inumane», avverte Musso.

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Rifugiati in Serbia – Foto: © European Union/ECHO/Mathias Eick (via Flickr)

Richiedenti asilo tra Sai, Cas e un sistema che non funziona più

A Parma il Sai, il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo che ha sostituito lo Sprar (poi chiamato Siproimi) ha circa 400 posti tra Parma, con capofila il Comune, e la provincia, dove è capofila il Comune di Fidenza, ed è gestito dal Ciac.

Chi è stato accolto nel Sai fino a qualche mese fa ha potuto iniziare un percorso di inserimento attraverso corsi di italiano, assistenza legale, progetti di formazione e lavoro. Ora questo non sarà più possibile, come spiega Ciac su Facebook raccontando la storia di Sairuful, un richiedente asilo del Bangladesh:

«Sairuful è stato fortunato. Se fosse arrivato in Italia a maggio di quest’anno, con l’entrata in vigore della legge Piantedosi, non sarebbe potuto entrare nel Sai. In frontiera, a Trieste, avrebbe rischiato di essere detenuto in un centro di identificazione ed espulsione perché senza passaporto ed entrato nel nostro paese irregolarmente, nascosto in un camion», scrive l’associazione.

Oggi ci sono una cinquantina di persone che chiedono accoglienza al Ciac. «Vengono da noi non per caso, non per disorientamento o perché non sanno dov’è la prefettura, ma perché siamo quelli che accolgono. Noi vorremmo dar voce a queste persone, per questo motivo abbiamo scritto al prefetto. Purtroppo, stiamo iniziando a vedere le conseguenze della nuova normativa: le persone sono in stato di abbandono e non vengono garantiti loro i diritti fondamentali», aggiunge Cela.

Trattenimenti e rischio respingimenti

La legge Piantedosi ha potenziato le misure di trattenimento dei richiedenti asilo nei Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr) e nei punti di crisi, gli hotspot.

«Una sorta di carcere amministrativo in cui gli stranieri che non hanno l’autorizzazione al soggiorno in Italia sono rinchiusi in condizioni inumane e di sovraffollamento, come ha raccontato in una recente intervista il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma», dice Musso.

I richiedenti asilo possono finire nei Cpr se, ad esempio, l’autorità amministrativa ritiene che sia necessario per determinare gli elementi della domanda di protezione internazionale, se hanno presentato domanda alla frontiera o nelle zone di transito, se provengono da un Paese considerato sicuro, se non hanno dato garanzie di avere risorse finanziarie.

«Il rischio di abuso del ricorso al trattenimento è serio», ammette l’avvocato.

Spesso le persone sono trattenute alla frontiera senza dar loro la possibilità di fare richiesta di asilo e respinte in modo “informale”, senza alcun documento contro il quale fare ricorso.

«In attesa di capire come verranno applicate le modifiche, il quadro che sembra emergere è quello per cui i richiedenti asilo verranno trattenuti quasi sempre e affronteranno la procedura di asilo rinchiusi. Sembra quasi, ma spero di sbagliarmi, che il disegno dietro alla legge 50/2023 sia risolvere le carenze sistemiche dell’Italia in materia di accoglienza rinchiudendo i richiedenti asilo nei Cpr e negli hotspot», conclude Musso.

Secondo Gazmir Cela, serve uno sforzo per dare una risposta diversa a queste persone: «Se meritano di avere la protezione internazionale, sarà la commissione a deciderlo, nel frattempo non possiamo lasciarle in strada. Dobbiamo essere solidali con chi arriva qui in situazione di bisogno, lo dice la nostra Costituzione, lo dice la nostra umanità. Tutta la rete, non solo le istituzioni, deve lavorare per trovare una soluzione, che sia costante, per dare dignità a queste persone».

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