Stupro di guerra: storia dell’uso della violenza sessuale come arma nei conflitti

Lo stupro è usato da secoli come arma di guerra. Si tratta di uno dei crimini di guerra meno riconosciuti della storia. Ma la nascita di normative e di un'istituzione in seno alle Nazioni Unite per combattere questa grave violazione fa pensare che le cose possano cambiare, almeno in parte

di Alessandro Marrazzo

Che del corpo femminile possa farsi campo di battaglia e strumento di conquista è cosa ben nota all’umanità sin dai tempi antichi. Basti pensare all’epos romano, che del “ratto delle Sabine” fece un momento fondativo della futura grandezza di Roma. O ancor prima all’opera omerica, cosparsa di riferimenti alle donne troiane come bottino di guerra.

Non dissimili furono, del resto, anche i successivi insegnamenti biblici, che al soldato cristiano postulavano di passare a fil di spada tutti i maschi, ma di fare delle donne, dei bambini e del bestiame la sua preda (Deuterononio, 20, 14).

Senza soluzione di continuità rispetto al passato, fu ugualmente l’età medievale, che vide il trionfo sulle donne ottenuto con la violenza affermarsi definitivamente come metro per misurare la vittoria militare e come tangibile ricompensa per i servizi resi dai soldati.

Lo stupro in tempo di guerra, insomma, come elemento connaturale al conflitto stesso: questo il senso comune con cui si giunge all’epoca moderna.

Stupro come arma di guerra nella storia

È solo col farsi avanti del XVII secolo, pietra miliare del diritto contemporaneo che si svincola dal dogma religioso e dalla tradizione, che si possono trovare le prime voci dissonanti. Primo fra tutti Ugo Grozio, da molti considerato il fondatore della scuola del diritto naturale, che nel suo De Iure Belli ac Pacis del 1646, pur giustificando in linea di massima il ricorso alla guerra armata, al contempo affermava l’assoluta necessità di proibire i conflitti che violassero i diritti dei popoli, sostenendo che lo stupro non dovesse rimanere impunito in guerra meno che in tempo di pace.

Ciononostante, la prima statuizione positiva della violenza sessuale come crimine di guerra avverrà solo due secoli dopo, grazie all’emanazione del General Orders n. 20 del 1847, con cui il generale Winfield Scott dell’esercito degli Stati Uniti – in applicazione di un atto del congresso americano – elencava il novero dei crimini severamente vietati ai suoi soldati nell’adempimento dei loro doveri.

Tra questi, dopo l’omicidio, la mutilazione e il ferimento, campeggiava lo stupro. Non si può fare a meno di sottolineare come la prima previsione specifica dello stupro come crimine di guerra sia dunque provenuta da un generale dell’esercito, che la impose ai militari suoi sottoposti. Quasi a sottolineare l’impellente necessità di proibire condotte talmente diffuse da rendere inutili i ripetuti richiami ai sottoposti e parimenti necessaria la previsione di una specifica norma incriminatrice.

Tuttavia, quest’evoluzione ci racconta di un’atmosfera precipuamente statunitense, moto di reazione verso la liberticida e oppressiva Inghilterra, al cui giogo i neonati Stati Uniti si erano da poco ribellati con la guerra di secessione.

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Guerra in Ucraina – Foto: via Unsplash

Europa contro la violenza sessuale come arma nei conflitti

Perché qualcosa di simile venga sancito su carta in Europa bisognerà attendere ancora una trentina d’anni. Precisamente il 1874, quando a Bruxelles venne inaugurata la prima Conferenza sui diritti e i doveri dei belligeranti, per dare un contorno formale ai cosiddetti usi di guerra.

Nella Dichiarazione che ne conseguì, all’art. XXXVIII si afferma: «l’onore e i diritti della famiglia […] siano rispettati». Parole fumose, ma che la dottrina internazionalistica ha ritenuto indicative della volontà di reprimere la violenza sessuale nell’alveo dei conflitti bellici. Sono i primi vagiti del nascente diritto umanitario internazionale, che maturerà definitivamente con le due Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907.

Le prime (difficoltose) applicazioni del divieto di stupro in guerra

Eppure, questa nuova sensibilità non impedì che ogni possibile forma di violenza sessuale venisse ancora impiegata come arma e tattica di guerra. L’accrescersi nel tempo dell’attenzione dedicata a tale crimine, come parimenti dei mezzi e risorse d’investigazione e informazione, ci ha messo oggi a disposizione un ventaglio di fonti in grado di descrivere con sufficiente completezza un panorama desolante. Né tutti gli enfatici «mai più» pronunciati dall’umanità in risposta agli orrori delle due guerre mondiali sono stati in grado di arginare definitivamente questa piaga, o quantomeno di garantire la giustiziabilità dei colpevoli.

Se è infatti vero che, con la quarta convenzione di Ginevra del 1949, le nazioni si munirono del primo strumento di diritto internazionale che vietasse esplicitamente lo stupro e la prostituzione forzata in tempo di guerra, è altrettanto vero che nessun criminale dell’Asse venne processato per tali crimini, né al processo di Norimberga, né tantomeno al processo di Tokyo.

Una chiara mancanza di volontà politica, essendo copiosa la quantità di materiale probatorio a disposizione dell’accusa. Volontà politica che invece prevarrà, all’inverso, nel disastro umano in Bosnia Erzegovina, dove la meschina pratica dello stupro assurgerà a strumento non solo di guerra, ma di vera e propria pulizia etnica, scelto e incitato dai vertici politici, istituzionali e militari della società serba come mezzo più adatto allo scopo di «purificare» certe aree geografiche dalla presenza delle etnie musulmane e croate.

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Donna sopravvissuta alla guerra nella sua casa in Bosnia settentrionale – Foto: Ziyahgafic

Stupro come arma di guerra: la situazione oggi

Passando all’oggi, la realtà sul campo non è consolatoria. La contemporaneità è infatti teatro di innumerevoli conflitti nei quali il numero di civili vittime di tale violenza è drammaticamente alto. Congo, Myanmar, Siria, Etiopia, Sudan, Colombia e da ultimi Haiti e Ucraina sono solo alcuni tra i più recenti e catastrofici.

I numeri sono impietosi. Si stima che, per ogni episodio di violenza denunciato, un numero di casi che varia tra 10 e 20 passi sotto silenzio. Per portare un esempio, nel solo 2021 è stato verificato l’avvenimento di 3.293 episodi di violenza sessuale legata ai conflitti sul pianeta; un calcolo prudente fa dunque presumere che il numero reale si aggiri tra i 32.930 e i 65.860, e con ogni probabilità è molto maggiore. Ad oggi, nessuno dei responsabili di questi atroci crimini è stato assicurato alla giustizia.

Il ruolo decisivo delle Nazioni Unite

Ma qualcosa negli ultimi vent’anni sta cambiando, quantomeno sul piano politico e istituzionale. L’organizzazione delle Nazioni Unite – il più alto organismo sovranazionale, che incorpora tra le sue prime finalità quella di «promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti» – sta cambiando l’approccio alla lotta contro le violenze sessuali nei conflitti.

Per contrastare il dilagare di questi orrori, l’Onu ha infatti varato, nel 2007, il primo programma di contrasto di caratura internazionale: l’UN Action Against Sexual Violence in Conflict, una piattaforma in cui convergono 24 diverse entità delle Nazioni Unite con il fine di contrastare la violenza sessuale nei conflitti attraverso la prevenzione, la tutela dei sopravvissuti e il perseguimento dei responsabili.

Sulle orme di questa iniziativa, nel 2008 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha poi approvato la pionieristica risoluzione 1820, con cui riconosceva per la prima volta la violenza sessuale nei conflitti come una minaccia al perseguimento della pace e della sicurezza tra i popoli, arrogandosi la competenza a deliberare e legiferare sul tema.

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Donna sopravvissuta, Bosnia settentrionale – Foto: Ziyahgafic

L’istituzione Onu che combatte la violenza sessuale nei conflitti

È il trampolino che porterà un anno dopo all’approvazione della risoluzione 1888/2009, con cui il Consiglio di sicurezza dà vita alla prima – e ad oggi unica – istituzione pubblica internazionale dedicata esclusivamente alla questione: lo United Nations Special Representative of the Secretary-General on Sexual Violence in Conflict.

Tra i compiti di questo rappresentante speciale e del suo ufficio rientrano quelli di rafforzamento dei meccanismi già esistenti e di sensibilizzazione e cooperazione con i governi, compresi i rappresentanti militari e giudiziari, nonché con tutte le parti coinvolte in conflitti armati e con la società civile, al fine di affrontare, sia a livello locale sia globale, la violenza sessuale nei conflitti armati.

L’importanza di questa nuova figura si è potuta apprezzare in occasione dello evolversi del conflitto russo-ucraino, avendo condannato pubblicamente l’utilizzo della violenza sessuale da parte delle milizie russe sin dall’inizio dell’invasione, spingendo la società civile, gli Stati, i tribunali nazionali e internazionali ad agire nel tentativo di limitare questo crimine e assicurare la giustiziabilità dei responsabili.

È proprio partendo da quanto appena descritto che si devono porre le basi per programmare l’agire futuro. In primis, è fondamentale concentrare gli sforzi per evitare che tali crimini abbiano luogo. Il contrasto alle violenze sessuali nei conflitti non può più prescindere infatti da concrete azioni di prevenzione, in grado di fungere da deterrente all’utilizzo della violenza sessuale come arma bellica.

A tal fine, il primo strumento di deterrenza da considerare non può che essere l’implementazione di efficienti sistemi giurisdizionali, garantendo a quest’ultimi la disponibilità delle risorse e dei mezzi necessari a individuare e sanzionare con tempestività coloro che di tali crimini si macchino. La lotta contro le violenze sessuali nei conflitti è oggi dunque diventata una lotta contro l’impunità.

Accanto all’intensificazione e al miglioramento dell’opera giurisdizionale, è forte la necessità che si affrontino finalmente le cause profonde di questo fenomeno, prendendo atto che la disuguaglianza strutturale di genere, la discriminazione, la povertà e l’emarginazione, se non debitamente contrastate, saranno sempre il motore invisibile ma ineluttabile della sofferenza patita dalle vittime di siffatta violenza.

E dove la prevenzione dovesse fallire, sarà necessario istituire adeguati presidi di tutela e assistenza ai sopravvissuti, così che non siano colpiti da una seconda punizione: l’essere abbandonati ed emarginati, soggetti al ripudio e alla stigmatizzazione. Solo un approccio incentrato sul sopravvissuto può promuovere la sua guarigione e dare priorità ai suoi diritti, bisogni e desideri.

Ciò significa garantire che questi ultimi possano fruire di servizi appropriati e accessibili, tra cui assistenza sanitaria, supporto psico-sociale, consulenza legale e il sostegno ai mezzi di sussistenza, soprattutto nei casi in cui i sopravvissuti siano stati ripudiati e allontanati dalle famiglie e dai gruppi sociali di appartenenza.

Realizzare tutto questo richiede indubbiamente uno sforzo globale e non trascurabile. Questa azione non può essere ancora rimandata, perché, per usare le parole di Denise Nyakéru Tshisekedi, first lady della Repubblica Democratica del Congo, nonché Global Champion for the Fight Against Sexual Violence in Conflict delle Nazioni Unite, «questa è la questione cruciale del nostro tempo e tutti, ovunque vivano, devono lottare insieme per il cambiamento».

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