
Rana Plaza: dieci anni dopo la tragedia la sicurezza migliora, i salari no
Cosa è successo nell'edificio Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh, il 24 aprile 2013? E cosa è cambiato da allora nel settore dell'abbigliamento in Bangladesh e a livello globale? Ecco come sono andate le cose e qual è la situazione oggi
«Si sentiva un brusio continuo, come quello di un alveare, e il pianto delle persone intrappolate e di quelli che fuori aspettavano. I soccorsi erano lenti e inadeguati e noi ci sentivamo impotenti». Babul Akther, segretario generale della Federazione dei lavoratori dell’industria e del tessile del Bangladesh, ricorda così quella mattina del 24 aprile 2013, esattamente 10 anni fa, quando il Rana Plaza – un edificio di otto piani alla periferia di Dacca, che ospitava negozi, una banca e cinque fabbriche di abbigliamento – si accartocciò su se stesso in 90 secondi uccidendo 1.134 persone e ferendone più di 2.000, in maggioranza giovani donne.
Fu una delle più grandi tragedie industriali della storia, che spalancò gli occhi del mondo sulle condizioni di chi produce i capi venduti dalle catene della fast fashion.
Rana Plaza: i marchi coinvolti, i risarcimenti e la giustizia che non va
Le famiglie delle vittime hanno ricevuto un risarcimento soltanto dopo un’intensa pressione sui marchi che producevano a Rana Plaza, tra i quali Mango, Benetton e Primark, coordinata dalla Campagna Abiti Puliti.
Chi nell’incidente ha subito traumi che gli impediscono di lavorare ha speso tutto in cure mediche, denunciano i sindacati, e ora non ha di che vivere.
La giustizia è sostanzialmente ferma. Il proprietario dell’edificio, che ha costruito illegalmente gli ultimi tre piani, fu arrestato nel 2013 mentre cercava di fuggire in India, ed è fuori su cauzione in attesa del processo, sorte condivisa con altri presunti responsabili.
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Rana Plaza: cosa è successo alla sicurezza in questi 10 anni
Dopo la tragedia del Rana Plaza ci sono stati alcuni passi avanti nella sicurezza dei lavoratori del settore tessile. Nei mesi successivi al crollo, i marchi internazionali della moda e i sindacati bengalesi hanno siglato un primo accordo legalmente vincolante che ha introdotto un meccanismo di monitoraggio della sicurezza statica, elettrica e antincendio delle fabbriche, prevedendo ispezioni indipendenti e l’obbligo di compiere gli adeguamenti necessari.
Se il proprietario della fabbrica non agisce, l’acquirente internazionale può cancellare il contratto. Se il marchio che produce nell’edificio non a norma non si fa carico dei suoi obblighi, pretendendo il rispetto degli standard di sicurezza, può essere condannato a pagare i lavori necessari (come è avvenuto in un paio di casi).
I lavoratori ricevono una formazione sui loro diritti e possono ufficialmente avviare il procedimento per ottenere la messa in sicurezza della loro fabbrica.
Nel 2021 l’accordo è diventato internazionale con la sigla di oltre 190 brand e due organizzazioni sindacali globali. L’intento è di espanderne l’applicazione ad altri paesi e anche la portata comprendendo altri diritti dei lavoratori. In Pakistan un’intesa tra aziende e sindacati è stata raggiunta a dicembre dell’anno scorso.
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In Bangladesh l’accordo c’è, ma non per tutti
«In Bangladesh l’accordo copre circa 1.500 fabbriche e garantisce la sicurezza di oltre 2 milioni di lavoratori», rileva Babul Akhter, «ma ci sono ancora molti subappaltatori che non vi rientrano. Inoltre è fondamentale che i controlli siano effettuati costantemente».
Da quando in Bangladesh la competenza sulle ispezioni previste dall’accordo è passata a un organismo locale, il Bangladesh Readymade Garment Sustainablity Council (Rsc), la cui composizione è fortemente influenzata da proprietari di fabbriche e acquirenti, attivisti e sindacati temono un indebolimento dell’impegno per la sicurezza dei lavoratori.
Alcuni grandi marchi, come Ikea, Levi’s e Amazon, denuncia la Campagna Abiti Puliti, si rifiutano di firmare l’accordo, sostenendo di adottare propri sistemi di accertamento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche che tuttavia non sono sottoposti ad alcuna verifica indipendente.
Salari troppo bassi nel settore tessile: la denuncia dei sindacati
La mattina del 24 aprile 2013 quelle cinque fabbriche del Rana Plaza dovevano essere vuote. Il giorno prima i lavoratori erano stati evacuati dalle autorità perché c’erano delle crepe nell’edificio. Ma furono convinti a tornare alla macchina da cucire sotto la minaccia di perdere il magrissimo salario.
«I lavoratori guadagnano talmente poco che hanno dovuto arrendersi a rischiare di perdere la vita pur di non rinunciare ai soldi», sottolinea amara Kolpona Akter, segretaria generale della federazione sindacale del settore tessile, entrata da bambina in una fabbrica di abbigliamento. «Se mia madre fosse stata pagata a sufficienza io non avrei dovuto lavorare».
Un operaio che cuce jeans e magliette guadagna 8.000 taka al mese (circa 68 dollari), soglia fissata 5 anni fa, il cui potere d’acquisto oggi è ancora inferiore a causa dell’inflazione.
Quest’anno è prevista una revisione del salario minimo. I sindacati chiedono di alzarlo a 23 mila taka (circa 200 euro). Ma secondo l’Asian Wage Floor Alliance, che raggruppa sindacati asiatici, ong, e attivisti dei paesi dove i capi di moda sono acquistati, per poter sopravvivere dignitosamente i lavoratori bengalesi dovrebbero guadagnare oltre 53 mila taka al mese.
Nelle precedenti tornate negoziali le proteste dei lavoratori sono state soffocate spesso con violenza dalla polizia. E lo stesso Babul Akhter è finito in carcere nel 2010.
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A 10 anni dal crollo del Rana Plaza la libertà di associazione è in bilico
«Sono convinto che se nelle fabbriche di Rana Plaza ci fossero stati i sindacati, quei lavoratori avrebbero potuto, insieme, alzare la voce e farsi ascoltare», sostiene Babul Akhter. «Dopo il crollo, il bando non ufficiale alla registrazione dei sindacati è stato tolto e abbiamo assistito a un aumento delle iscrizioni, ma ora, dopo la pandemia, sono di nuovo in calo».
La procedura di formazione di un sindacato è laboriosa, ottenere l’iscrizione obbligatoria è una procedura spesso complicata e, afferma Akhter, macchiata da abusi. I lavoratori che decidono di iscriversi subiscono intimidazioni e discriminazioni.
«I datori di lavoro minacciano cause arbitrarie, io stesso sono stato denunciato due volte il mese scorso per aver sostenuto lavoratori licenziati. Siamo sotto controllo e spesso riceviamo telefonate minatorie».
La via indicate da Kolpona Akter e dalla Campagna Abiti Puliti è quella segnata dall’accordo sulla sicurezza: convincere i marchi della moda a estendere gli impegni obbligatori, comprendendo garanzie sulla salute dei lavoratori, il pagamento degli infortuni, salari decenti e la libertà di aderire senza ritorsioni ai sindacati. Finora nessun brand ha accettato.