Educatore professionale, un lavoro senza diritti
Essere educatore professionale, sociale, culturale, sanitario, scolastico, socio-pedagogico o dei servizi per l'infanzia cambia poco: in ogni caso si tratta di un lavoro sfruttato e poco riconosciuto
«Ci sono educatori che escono di casa alle 7 del mattino e rientrano alle 7 di sera per riuscire a mettere insieme 6 ore di lavoro pagate. E nessuno riconosce loro il tempo necessario per spostarsi da un luogo all’altro o le ore di lavoro indiretto, impiegate ad esempio per la preparazione di materiali. Non hanno nemmeno il rimborso della benzina».
A parlare è una educatrice del Comitato per i diritti degli educatori professionali del Piemonte e quella che ha descritto è una condizione comune a gran parte degli educatori che lavorano in appalto nei servizi educativi pubblici e si prendono cura di persone con disabilità, con problematiche psichiatriche, in situazione di fragilità. Non solo in Piemonte, ma in tutta Italia.
Sono passati più di cinque anni dalla legge 205 del 2017 che avrebbe dovuto regolamentare la professione degli educatori, ma le loro condizioni di lavoro sono pessime: orari massacranti, decine di contratti diversi, stipendi bassi. Eppure svolgono un ruolo essenziale.
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Educatore professionale: lavoro in appalto e condizioni drammatiche
Il comitato piemontese è nato nell’autunno del 2022 e riunisce educatori di varia provenienza, con titoli diversi e impiegati in cooperative e altre agenzie educative. Ad accomunarli è il fatto che cooperative e agenzie educative lavorano in appalto con il Comune di Torino, Consorzi, Asl, con l’ente pubblico, insomma.
«Lavoriamo soprattutto nell’educativa scolastica, domiciliare e territoriale. Ma anche nell’inserimento lavorativo e nei progetti di autonomia per gli adulti. Seguiamo le persone nei contesti in cui possono aver bisogno dell’intervento educativo: a scuola, a casa, sul territorio, nei centri diurni. Ma le condizioni sono drammatiche: in alcune realtà vengono ancora richieste le “notti passive“: si fa la notte in comunità, ma non viene pagata perché, dicono, la notte si dorme. Ma non è così e, comunque, non ci si può allontanare perché si è in servizio. E poi quasi tutto il settore è portato avanti da part-time. Com’è possibile? La politica dovrebbe interrogarsi su questo», dice.
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Le richieste degli educatori: riconoscimento professionale, diritti e contratto unico
«A livello locale chiediamo il riconoscimento delle ore di lavoro in assenza dell’utente, di considerare gli spostamenti come tempo lavoro e di riconoscere le ore di lavoro indiretto. A livello nazionale ci battiamo per un contratto unico equiparato al pubblico e il riconoscimento del nostro come lavoro usurante», dice la rappresentante del comitato.
Per portare avanti queste rivendicazioni il comitato ha lanciato una raccolta di firme su Change.org, sta incontrando politici e amministratori locali, come l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Torino, Jacopo Rosatelli, è in contatto con altre realtà, tra cui il Comitato per i diritti degli educatori professionali in Puglia e parteciperà allo sciopero di Non una di meno dell’8 marzo.
L’educatrice spiega che in caso di assenza, per malattia o per altri motivi, della persona che seguono, gli educatori si “congelano” e le ore in cui dovrebbero essere a scuola o sul territorio non vengono riconosciute come lavoro. E lo stipendio, già risicato, si riduce.
«Se in una settimana un educatore perde alcune ore perché la persona che segue è assente, dovrà recuperarla nella settimana successiva, sempre che sia possibile e ci sia il consenso della famiglia, della scuola e dell’ente pubblico. Alcuni Comuni o Consorzi non permettono il recupero, altri lo consentono ma solo nella settimana in corso, evidentemente impossibile. E si va in banca ore negativa, che invece di favorire l’educatore è un cappio al collo», spiega.
Il Comitato chiede che in assenza della persona da seguire le ore stabilite vengano pagate dall’ente. «Le ore per ogni persona sono decise da settembre a dicembre e poi da gennaio a giugno e messe a bilancio. È una spesa già prevista. Quindi se il bambino è a casa in malattia, io segnalo l’assenza e posso impiegare quelle ore per andare a scuola a prendere appunti, seguire le lezioni, preparare materiale. Sarà poi l’ente a chiedere conto alla famiglia delle assenza ripetute ed eventualmente a riformulare l’intervento. Questo problema non può essere scaricato sui lavoratori».
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L’intervento prevende continui spostamenti, ma l’educatore deve pagarli di tasca propria
«Se lavoro 40 ore a settimana con 4 persone, le 10 ore che faccio con ognuno di loro vengono spalmate tra mattine e pomeriggi. Per spostarmi da un luogo all’altro ci posso mettere mezz’ora, a volte anche un’ora. Ma in quel tempo non sono più in servizio, non esisto, e non mi viene rimborsata la benzina. Ma sono gli enti stessi a chiedere che l’intervento educativo sia fatto su più passaggi tra scuola e casa, ad esempio», dice l’educatrice.
Se da un punto di vista educativo può avere senso, allora è necessario che l’ente si faccia carico del tempo necessario per spostarsi da un luogo all’altro, «invece non lo calcola nessuno».
Cosa fa e per cosa (non) è pagato un educatore: ideare, progettare e preparare un intervento
E poi c’è il lavoro indiretto: il lavoro intellettuale degli educatori non viene riconosciuto, quel tempo che serve per elaborare e progettare un percorso educativo, ma anche per preparare i materiali, come ad esempio ingrandire i testi per gli ipovedenti, non è considerato se non in una minima percentuale. Eppure è un lavoro immane, fatto la sera e nel weekend.
«Ci danno 2 ore per il Piano educativo individuale ma quelle 2 ore servono solo per la scrittura materiale del Pei. E la progettazione? L’ideazione? Chi ce le paga?».
Educatore professionale, scolastico, socio-pedagogico, sanitario, sociale e culturale: la grande fuga
Sono sempre di più gli educatori professionali che scelgono di lasciare il lavoro per cui hanno studiato perché le condizioni sono inaccettabili. «Ci sono persone con vent’anni di esperienza che si sono arrese. C’è chi ha trovato un lavoro in pizzeria e l’ha preso perché prende la stessa cifra ma almeno ha degli orari fissi. E chi è andato a fare il precario a scuola perché con lo stesso numero di ore lo stipendio è più alto, si lavora fino a giugno e poi c’è la disoccupazione per i mesi estivi. Ma lo hanno fatto con grande sofferenza», dice la rappresentate del comitato piemontese.
La conseguenza è che mancano educatori. Ci sono comunità che chiudono perché mancano gli operatori, si perdono competenze e peggiora la qualità dei servizi.
«È un’emorragia di esperienze e di competenze. Una perdita che rappresenta un problema anche per le persone che seguiamo, che hanno bisogno di professionalità e invece devono affrontare un turnover continuo e magari si ritrovano con persone non formate. In alcuni casi, infatti, la politica per arginare questa situazione ha scelto di assumere in deroga, ovvero prendere persone che non hanno i titoli per fare il nostro lavoro», conclude.