Shoah spiegata ai bambini: parlarne alla scuola primaria è possibile

La Shoah spiegata ai bambini della scuola primaria: ecco i suggerimenti di Matteo Corradini, scrittore ed ebraista, autore di "Tu sei memoria", un libro che si occupa proprio di questo. «Non riduciamo il racconto allo sterminio, ma allarghiamo lo sguardo sui passaggi che hanno portato a quel momento»

Come si fa didattica della memoria nella scuola primaria? Ed è giusto raccontare un evento terribile come la Shoah a bambini così piccoli?

«Se noi abbiamo in mente che la Shoah sia solo e soltanto lo sterminio fisico degli ebrei, allora non va bene spiegarla nella scuola primaria. Con bambini così piccoli non si parla di Auschwitz, di sterminio, di camere a gas. È uno shock che preferiamo non provino a quell’età. Se invece intendiamo la Shoah come un periodo più lungo che ha preparato lo sterminio, un periodo fatto di propaganda, antisemitismo, ghettizzazione, razzismo, discriminazione, allora quei passaggi si possono raccontare».

A parlarne con Osservaotrio Diritti è Matteo Corradini, ebraista e scrittore che si occupa di didattica della memoria e di progetti di espressione con le scuole, autore di “Tu sei memoria” (Erickson), un libro che contiene percorsi didattici sull’ebraismo e sulla Shoah rivolto agli insegnanti della scuola primaria. Nel corso del 2023 ne uscirà anche uno dedicato alle scuole secondarie.

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Copertina del libro “Tu sei memoria” di Matteo Corradini

Shoah spiegata ai bambini: tra legge e programmi scolastici

In Italia non è previsto l’insegnamento della Shoah nella scuola primaria, è un argomento che si affronta alle medie, al terzo anno, quando nelle lezioni di storia si spiega la Seconda Guerra Mondiale. Ma la legge 211 del 2000 – quella che ha istituito la Giornata della memoria nel nostro Paese – prevede che in occasione di quella Giornata vengano organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione su quanto accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, in particolare nelle scuole. L’obiettivo è conservarne la memoria e far sì che simili eventi non possano mai più accadere.

E, come riporta, uno studio dell’Ocse del 2006 citato da Corradini nel libro, sono molte le scuole italiane, anche primarie, che hanno inserito la Shoah nei loro programmi.

Shoah spiegata ai ragazzi: l’immaginario comune che influenza le scelte

Nell’immaginario comune, la Shoah è rappresentata solo dai campi di sterminio, è accaduta in uno spazio limitato (i campi di concentramento nazisti in Germania e in Polonia) e in un periodo di tempo limitato, il periodo che va dal 1943 al 1945.

Ma, come scrive Corradini, «il problema con un immaginario di quel genere è che venga affrontato, applicato, raccontato senza alcun filtro con ragazzini e ragazzine della scuola primaria. Se riduciamo la Shoah a un immaginario ristretto e chiuso come quello appena descritto, come insegnanti ci ritroviamo di fronte a un bivio, e a decisioni molto complicate».

Corradini scrive che un insegnante può decidere di raccontare lo sterminio, con effetti traumatici su alunni e alunne delle elementari, può scegliere di evitare l’argomento (è la scelta fatta da Israele, ad esempio, dove la la Shoah si insegna dai 15 anni di età) oppure può allargare lo sguardo.

«Se sleghiamo la Shoah dalla materia storia, scopriamo che si può affrontare da tanti punti di vista e non solo nelle materie umanistiche, come italiano e storia, ma anche in quelle scientifiche o nell’educazione fisica», dice Corradini.

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Memoriale della Shoah a Berlino – Foto: JoJan (via Wikimedia Commons)

Come parlare di Shoah a scuola

Usare un linguaggio adeguato all’età degli studenti e alla loro formazione. Scegliere immagini adatte, evitando quelle più brutali (le pile di cadaveri, le fosse comuni). Preferire immagini legate alle storie delle persone (le famiglie ebree nelle città, gli oggetti, la propaganda). Essere parchi. Sono alcune delle indicazioni che Corradini dà in Tu sei memoria.

«Oggi si pensa che visto che i bambini sono bombardati continuamente da stimoli visivi capiscano le immagini. Non è detto che sia così. Meglio lavorare per sottrazione, anche con i più grandi. Con le quinte superiori non mostro immagini raccapriccianti, ma se voglio far vedere l’orrore, scelgo una immagine soltanto da mostrare nelle due ore in cui stiamo insieme, e diventa molto più potente. Perché il problema dell’orrore nelle immagini è che poi ci si abitua», dice.

Ma cosa possono imparare i bambini dall’insegnamento della Shoah? Per Corradini, il primo obiettivo è avvicinarsi a qualcosa che è realmente accaduto in certi luoghi geografici, contestualizzare. «E poi scoprire i meccanismi della storia. La Shoah è una conseguenza. Si ragiona molto sulle conseguenze, in molti campi, non solo in quello della memoria. Dovremo iniziare a ragionare sulle cause. Ci farebbe aprire gli occhi anche sulle cause del razzismo di oggi, che ha meccanismi molto simili a quello di 80 anni fa. Perché si ripetono i meccanismi della storia, non la storia».

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Il pavimento della Sala della Memoria allo Yad Vashem di Gerusalemme – Foto: Mrbrefast (via Wikimedia Commons)

La Shoah spiegata ai bambini della scuola primaria: un libro e un percorso didattico in cinque tappe

Nel suo libro, Matteo Corradini propone un percorso in cinque tappe per avvicinarsi alla conoscenza della Shoah, con proposte di approfondimento, ricerca, espressione e laboratorio.

«La tappa più importante è quella sulla cultura ebraica. In generale, c’è una scarsa conoscenza dell’ebraismo in Italia. Ed è bene partire da lì altrimenti non si riesce a comprendere quello che è accaduto, perché si parla dello sterminio di persone che non si conoscono. Le altre tappe sono le discriminazioni e i meccanismi del razzismo, poi c’è l’inizio della Shoah, con le leggi razziali, gli arresti e i ghetti, poi lo sterminio che evito nella scuola primaria, e infine il dopo, ovvero cosa rimane, come fare memoria, come organizzare la Giornata del 27, visitare un luogo della memoria o incontrare un testimone», spiega lo scrittore.

Molte attività proposte sono manuali: ce n’è una, “Lo yoga delle lettere ebraiche“, che insegna l’alfabeto ebraico agli alunni che, dopo averlo scritto con i pennarelli, provano a imitare la forma di una lettera con il proprio corpo, in un’altra si spiega come realizzare una kippah, il copricapo simbolo delle tradizioni ebraiche, e qual è il suo significato, o come cucinare i montini di Purim, tipici dolcetti ebraici.

«La manualità aiuta a creare interesse e, in questo caso, interesse per un argomento lontano, anzi lontanissimo per i ragazzi delle scuole. Le attività pratiche sono perfette per renderlo più vicino. Usiamo anche un po’ di tecnologia, ma il minimo indispensabile», dice Corradini.

La memoria della Shoah

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Quella data è stata scelta nel 2005 dalle Nazioni Unite per commemorare le vittime della Shoah.

Ma che cosa significa fare memoria oggi?

«Oggi vedo un po’ di stanchezza, molta ripetizione, poca originalità. E questo fa male. La giornata è forse diventata un po’ banale, mentre fare memoria vuol dire recuperare un po’ di silenzio e di simbolismo. Il 27 gennaio non è la giornata per fare lezione o spiegare, ma è il giorno per stare in silenzio, fare qualcosa di simbolico».

Come posare tre rose bianche sul monumento che, all’Università di Monaco di Baviera, ricorda Sophie Scholl, l’attivista del gruppo Rosa Bianca che distribuiva volantini antinazisti in cui denunciava le deportazioni e le uccisioni e che, per questo, è stata condannata a morte.

«A distanza di così tanti mi domando cosa sia più importante, se il monumento oppure i fiori: è una questione a cui ciascuno risponde a modo proprio. Ma io vedo in quelle rose il gesto migliore. Il monumento potrebbe anche non esistere, è tutto in funzione della rosa, da solo cosa rappresenterebbe? Un po’ di rame ingrigito dall’aria. Mentre il fiore, anche da solo, vuol dire che qualcuno ti pensa, ci ripensa, qualcuno sa cosa hanno voluto dire certe parole. Qualcuno non dimentica», scrive Corradini.

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