Precariato: lavoro a tempo determinato e salari bassi dilagano in Italia

Sette contratti di lavoro su dieci sono a tempo determinato. I salari sono calati di quasi il 3% negli ultimi 30 anni, contro una crescita media in area Ocse di oltre il 38 per cento. Ecco la fotografia del precariato in Italia secondo il rapporto Inapp 2022

Terminata l’emergenza Covid-19, il mercato del lavoro appare ancora «intrappolato nella precarietà»: dei nuovi contratti attivati nel 2021, sette su dieci sono a tempo determinato, il part time involontario coinvolge l’11,3% dei lavoratori (contro una media Ocse del 3,2%), solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa nell’arco di tre anni ad impieghi stabili, i lavoratori poveri rappresentano ormai il 10,8% del totale.

Il nostro poi è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1% e dove le politiche in tema di sostenibilità sono state adottate appena dall’8,6% delle imprese, di queste la gran parte solo per il miglioramento nella gestione dei rifiuti, dove invece resta una chimera la creazione di filiere ecosostenibili (appena 1,2%) e per la produzione/consumo di energie da fonti rinnovabili (3,1%).

È quanto emerge dal “Rapporto Inapp 2022 – Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro” presentato ieri alla Camera da Sebastiano Fadda, presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), con la partecipazione del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone.

Il mondo del lavoro in Italia: la lenta crescita dell’occupazione

In Italia il tasso di occupazione, sceso dal 58,8 al 56,8% all’inizio della pandemia, ha ripreso a crescere solo nel 2021 e ha impiegato 18 mesi per tornare ai livelli pre-crisi. Nei Paesi Ocse la risalita era già consistente nel secondo trimestre 2020 e si è completata in 15 mesi.

Nel 2021 sono stati 11.284.591 le nuove assunzioni, con prevalenza della componente maschile: 54% contro il 46% per le donne.

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Precariato: tempo determinato e contratti di lavoro atipici

Nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti è a tempo determinato (il 14,8% a tempo indeterminato). Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time) rappresenta l’83% delle nuove assunzioni, con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni.

Il rapporto rivela il crescente aumento dei contratti non standard, diffusi dopo la prima crisi 2007-2008 è diventati strutturali dopo la ripresa post-covid. Lo dimostra un’analisi comparata longitudinale per i periodi 2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021 su chi svolgeva un impiego precario.

In tutti questi periodi la «flessibilità buona» ha portato a un’occupazione stabile tra il 35% e il 40 per cento.

Dei rimanenti, sempre a distanza di tre anni, una quota ha continuato a svolgere un lavoro precario (tra il 30 e il 43% a seconda del triennio), un’altra ha perso l’impiego ed è in cerca di lavoro (16-18%), un’altra ancora è uscita dalla forza lavoro dichiarandosi inattiva (17% nel 2021, nel 2010 era il 3%).

Si riduce l’orario di lavoro

Nel 2021 il part time involontario (la quota di lavoratori che svolgono un lavoro a tempo parziale non per scelta) rappresenta l’11,3% del totale dei lavoratori, contro il solo 3,2% nell’area Ocse.

Allo stesso tempo, la tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro sembra non arrestarsi e il prodotto per singola ora è bloccato dal 2000 rispetto a tutti i Paesi, non solo membri dell’Unione europea.

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Precarietà e lavoro povero

Ci sono poi quanti, pur lavorando (dipendente o autonomo), sono in una famiglia a rischio povertà, cioè con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di rischio povertà. Nell’ultimo decennio (2010-2020) il tasso di «lavoro povero» è stato pressoché costante con un valore medio pari a 11,3% e una distanza rispetto all’Unione europea superiore mediamente del 2,1 per cento.

L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10 mila euro, mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30 mila euro, valori molto bassi se comparati con quelli degli altri lavoratori europei.

Se consideriamo il 40% dei lavoratori con reddito più basso, il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa, (quindi non ha risparmi o capacità di ottenere credito), il 20% riesce a fronteggiare spese fino a 300 euro e il 28% spese fino a 800 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.

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Salari, italia maglia nera dell’area Ocse

Tutto questo in un contesto generale in cui il nostro Paese nel corso degli ultimi 30 anni (1990 -2020) è l’unico ad aver registrato un calo dei salari (- 2,9%) a fronte di una crescita media dei Paesi Ocse del 38,5 per cento.

Nello stesso periodo la produttività è cresciuta del 21,9% e non sembrano dunque aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro. Nell’ultimo decennio (2010-2020), in particolare, i salari sono diminuiti dell’8,3 per cento.

Professioni e competenze

Nel 2021 solo il 22,8% delle imprese italiane segnala la necessita di adeguare le conoscenze e le competenze di specifiche figure professionali, nel 2017 erano un terzo. Sono le realtà produttive medio-grandi a registrare con maggiore frequenza la necessità di aggiornare le conoscenze e le competenze del personale (37,1% per le imprese con 50-249 addetti e 40,2% per quelle con 250 addetti e oltre).

Tra le professioni ad alta qualificazione, quelle tecniche sono il segmento per il quale emerge una maggior esigenza di aggiornamento in presenza di processi d’innovazione di impresa. In particolare, per il 16,7% delle professioni tecniche viene indicato un fabbisogno professionale laddove sono stati avviati interventi volti a potenziare la competitività d’impresa.

Rispetto agli interventi attuati, si segnala come nel sistema produttivo italiano sussistano ancora significative difficoltà e ritardi nello sviluppo di politiche in tema di sostenibilità, adottate tra il 2018 e il 2020 solo dall’8,6% delle imprese (in misura maggiore da quelle medio-grandi).

I principali interventi in media hanno infatti riguardato il miglioramento della gestione dei rifiuti (25%), l’efficienza e il risparmio energetico (14,2%) e la prevenzione/riduzione dell’inquinamento ambientale (12,4%).

Il 10,2% delle imprese italiane, invece, ha introdotto innovazioni in tema di competitività (in particolare le imprese medio-grandi, 20% circa). Oltre un quarto (35%) ha introdotto modifiche nell’organizzazione del lavoro, anche in risposta alla pandemia.

Oltre a questi temi, il Rapporto Inapp 2022 contiene approfondimenti sui temi della formazione, del welfare, delle politiche attive e passive e delle condizioni degli immigrati.

Fonte: Redattore Sociale

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