Carcere: lavoro essenziale per il reinserimento dei detenuti, ma mancano le opportunità

Meno di 16 mila detenuti lavorano per il carcere, mentre sono ancora pochi quelli occupati con datori di lavoro esterni. Ma non tutti si arrendono a questa situazione. E a Milano Bollate nasce Mitiga, un'impresa sociale fatta dai detenuti per i detenuti. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Dicuonzo

Il lavoro è uno dei pilastri del trattamento penitenziario e uno strumento essenziale per il reinserimento sociale delle persone detenute. Ma quante di queste lavorano? E quante hanno seguito corsi di formazione professionale?

I numeri non sono confortanti, come emerge dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone (Il carcere visto da dentro – 2022), anche se il quadro è molto variegato.

Ci sono istituti in cui tutti i detenuti lavorano, è il caso delle colonie agricole e degli Istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti (Icatt), mentre ce ne sono altri in cui le uniche attività disponibili sono la spesa, la cucina e le pulizie per il carcere. E non ci sono nemmeno per tutti i carcerati, perché la copertura finanziaria non è sufficiente e quindi i detenuti sono costretti a fare i turni. Spesso poi sono pagati per meno ore rispetto a quelle lavorate.

La formazione professionale invece risulta carente un po’ dappertutto. E la pandemia sembra aver bloccato gran parte dei corsi: in 35 istituti su 96 visitati da Antigone non era attivo nemmeno un corso.

Carcere e lavoro: ecco quali sono le occupazioni delle persone detenute

Nei 96 istituti visitati da Antigone il 33% dei detenuti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (circa 16 mila persone), in buona parte in mansioni di tipo domestico.

Solo il 2,2% dei presenti lavorava per altri soggetti (2.130), ma con percentuali molto diverse tra istituti: in Emilia-Romagna sono il 4%, in Campania meno dell’1 per cento. In 37 carceri nessun detenuto lavora per un datore diverso dal carcere.

Le lavorazioni attive negli istituti sono 244, di cui 115 gestite dall’amministrazione penitenziaria con 1.742 posti garantiti contro un potenziale di 2.142. Quelle più diffuse sono vivai, serre, allevamenti, sartoria e maglieria, lavanderia, panificio, pizzerie e pasticceria.

A Grosseto, per esempio, la casa circondariale non ha spazi per le lavorazioni interne e i detenuti sono impiegati, a turni, solo nelle attività domestiche. Inoltre, non ci sono corsi di formazione professionale né lavori di pubblica utilità per carenza di risorse economiche e mancanza di sinergia con il territorio.

Tra i detenuti che lavorano per esterni ci sono 677 semiliberi e 506 persone in articolo 21 (che hanno cioè la possibilità di uscire dal carcere per lavorare o studiare), mentre all’interno degli istituti lavorano per imprese esterne in 160 e in 777 per cooperative. Le agevolazioni fiscali previste dalla legge Smuraglia per le aziende che assumono i detenuti ammontano a circa 10 milioni di euro (dati 2020), ovvero circa 4.695 euro per ciascuno dei 2.130 detenuti.

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Foto da Inside Carceri, web-reportage di Next New Media e Antigone (via Flickr)

Formazione professionale al lumicino: la denuncia dell’associazione Antigone

Su 148 corsi attivati, ne sono stati portati a termine 100 (dati al 30 giugno 2021), ossia meno di un corso professionale per istituto e uno ogni due per quelli conclusi. Nel primo semestre del 2021 si sono iscritti 1.545 detenuti, di cui poco più di mille hanno terminato il corso.

In Molise, Puglia, Sardegna e Valle d’Aosta non sono stati attivati corsi, mentre in Umbria e Basilicata quelli attivati non sono stati portati a termine. Le regioni più virtuose sono la Lombardia, con 28 corsi attivati, la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia con 23 e l’Emilia-Romagna con 17.

La maggior parte dei corsi riguardano la cucina e la ristorazione, il giardinaggio, l’agricoltura, l’edilizia, l’arte e la cultura.

Come precisa l’associazione Antigone, negli ultimi 25 anni l’offerta di formazione professionale si è ridotta in modo significativo: se nel 1996 si coinvolgeva l’8% dei detenuti, dal 2016 non si arriva al 3 per cento.

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Carcere di Secondigliano – Foto da Inside Carceri, web-reportage di Next New Media e Antigone (via Flickr)

Lavoro e detenuti: la speranza che arriva dal carcere di Milano Bollate si chiama Mitiga

Dal rapporto di Antigone emerge dunque una situazione drammatica per il lavoro e la formazione in carcere. Le criticità sono molte: dai fondi insufficienti allo stigma nei confronti di chi ha commesso un reato e scontato la pena fino alla mancanza di un’idea progettuale mirata al reinserimento socio-lavorativo della persona.

«Il carcere italiano vive la persona reclusa come oggetto del trattamento, un’entità inerme che subisce ciò che viene deciso da altri. Se vuoi rieducare, al contrario, devi responsabilizzare, incentivare l’autodeterminazione, sostenere la persona nella formazione, nella capacità di fare scelte costruttive, darle strumenti per migliorarsi, per svelare attitudini e aumentare il ventaglio di possibilità di vita. E invece quello che succede è che tu sei in carcere, quando vai nei termini ti fanno fare un corso, poi esci e se va bene ti ritrovi con una borsa lavoro di 3 o 6 mesi pagata 450 euro, e basta», dice Vincenzo Dicuonzo, tra i promotori di Mitiga, impresa sociale ideata da persone detenute presso il carcere di Milano Bollate.

Vincenzo Dicuonzo ha 42 anni, di cui quasi 11 passati in carcere, e, come racconta a Osservatorio Diritti, è alla sua seconda detenzione: «Il mio fine pena è previsto per il 2028, ora sono in regime di articolo 21, quindi esco la mattina e rientro la sera in istituto. Nel 2023, se tutto va bene, dovrei accedere all’affidamento in prova».

Dopo Roma, Pavia e Como, Dicuonzo è a Milano Bollate. In questi anni di detenzione ha incontrato moltissime persone, diventando una sorta di “diario umano”.

«Tutti mi hanno riportato la stessa fotografia di quelle che sono le disfunzionalità del carcere, che poi si traducono in un’alta recidiva, nel sovraffollamento, nelle multe dall’Europa per i trattamenti disumani. Ho parlato anche con volontari, educatori, preti, persone che entrano in carcere e tutte convenivano sugli stessi punti. Il problema è che tutti lo sanno, ma si fa ben poco per migliorare le cose. È nata da qui l’idea di Mitiga», dice Dicuonzo.

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Carcere di Secondigliano – Foto da Inside Carceri, web-reportage di Next New Media e Antigone (via Flickr)

Carcere e lavoro: un’agenzia interinale fatta da detenuti e per detenuti

L’idea di Mitiga è nata tra il 2017 e il 2018. La pandemia ha bloccato tutto, ma il gruppo – composto da sei detenuti di cui due in articolo 21 e diversi professionisti tra imprenditori, volontari, docenti universitari, giornalisti, esperti di comunicazione – non si è arreso.

Oggi Mitiga è un’impresa sociale che ha sede nel complesso della RimaFlow (dove ha la sede operativa anche Osservatorio Diritti), progetto di lavoro basato sul mutuo soccorso, solidarietà, uguaglianza e autogestione nato all’interno della Maflow di Trezzano sul Naviglio, storica fabbrica dell’automotive chiusa nel 2012.

L’obiettivo è innanzitutto quello di trovare lavoro alle persone detenute, dialogando direttamente con le imprese.

«Stiamo finendo di creare il primo database interno a un carcere con i profili lavorativi delle persone. Abbiamo creato un software che incrocia i dati anagrafici con i termini giuridici per accedere alle misure alternative, ma anche con le esperienze pregresse e i titoli acquisiti durante la detenzione», racconta Dicuonzo.

L’idea è che non si possono applicare norme standardizzate perché le persone sono diverse, hanno diversi background e capacità ricettive. «L’ordinamento penitenziario prevede un trattamento specifico, ma rimane sulla carta perché spesso il lavoro che si offre è temporaneo e sottopagato, la formazione non tiene conto delle esperienze pregresse della persona ed è qualcosa che serve solo a toglierti dalla routine afflittiva del carcere. Ma se non ci si approccia alla persona con un’idea progettuale volta al reinserimento sociale, se non la si accompagna nella formazione, transdisciplinare prima che professionale, ciò che si ottiene è che quella persona lavorerà controvoglia perché non è qualcosa che gli piace o per cui è portata e alla prima avversità potrebbe tornare indietro», dice Dicuonzo.

Il sistema è a doppio binario: Mitiga offre alle imprese le figure di cui ha bisogno e se non ce ne sono le forma. «Da una parte la formazione viene fatta in base a una specifica richiesta da parte dell’azienda. Dall’altra si propone una formazione che segua vocazioni, attitudini ed esperienze pregresse della persona. È una sorta di agenzia interinale di detenuti per i detenuti».

Sono un centinaio i nomi mappati finora e ora Mitiga è in attesa del via libera da parte della direzione del carcere.

Società e persone in carcere: oltre i pregiudizi

Il secondo obiettivo di Mitiga è quello di sensibilizzare la società per superare la demonizzazione e i pregiudizi verso le persone detenute. «Ciò che non si conosce fa paura, ecco perché serve fare una campagna di sensibilizzazione e di informazione per far capire che la persona non si esaurisce nel reato che ha commesso, ma è un universo con mille sfaccettature, con capacità e carenze. E il carcere dovrebbe colmare le carenze e valorizzare le capacità. Invece tutto questo non esiste, anzi si tende a identificare la persona con il reato che ha commesso. Se hai sbagliato, vieni annullato», conclude Dicuonzo.

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