Haiti, proteste e violenza dilagano in uno dei paesi più poveri e pericolosi al mondo
Il paese più impoverito delle Americhe è in preda al caos e alla violenza: dal 12 settembre si sono intensificate le manifestazioni cominciate già nel luglio 2021, dopo l'omicidio del presidente Jovenel Moise
Tutto è cominciato lunedì 12 settembre, con l’annuncio del governo provvisorio della fine dei sussidi sui carburanti. Una misura che risponde a un bilancio statale disastrato, ma che precipita nella miseria e disperazione il popolo di Haiti. Tanto più che già da tre mesi il carburante scarseggiava e al mercato nero un gallone (poco meno di 4 litri) costava 16 dollari.
I beni di prima necessità sono quasi introvabili nel Paese e con l’impennata del prezzo del carburante sono previsti altri aumenti a cascata che vanno a peggiorare una situazione oramai insostenibile.
A questo si aggiunge una presenza massiccia di bande armate che controllano importanti zone della capitale Port-au-Prince e altre aree strategiche. Lo scenario è tragico: impunità, violenza, rapimenti, assalti a carceri e stazioni di polizia e vere e proprie battaglie in aree urbane.
Un caso su tutti è quello dei fatti di luglio scorso a Cité Soleil, dove l’Onu ha riferito che almeno 234 persone sono state uccise o ferite nei cinque giorni di violenze tra bande rivali in questo quartiere di Port-au-Prince, il più povero dell’area metropolitana della capitale di Haiti.
La stessa Onu, per bocca del portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Jeremy Laurence, aveva dichiarato che solo da gennaio a giugno 2022 nella capitale haitiana erano stati documentati 934 omicidi, 684 feriti e 680 rapimenti.
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Haiti in preda a un vuoto di potere: isola più pericolosa dopo l’omicidio del presidente
Ad Haiti in questo momento lo Stato è assente e la popolazione è abbandonata a se stessa, racconta a Radio3 il cooperante Roberto Codazzi. Nel paese caraibico sono decadute tutte le cariche elettive (sindaci e parlamentari), non sono previste elezioni a breve e dopo l’uccisione del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021 il potere è passato nella mani del primo ministro Ariel Henry, che però non è stato confermato da alcuna votazione parlamentare.
Di fronte all’aumento dell’intensità delle operazioni delle bande criminali, l’apparato statale di ordine pubblico appare inerme. L’esercito è di fatto inesistente, visto che fu dissolto durante il primo mandato del presidente Jean Bertrand Aristide nel 1995. Il defunto presidente Moïse aveva provato a ricreare un corpo militare nel luglio 2017, ma quello che si vede oggi è poco più di un embrione di quel progetto.
Anche la polizia è inefficace, perché impreparata, senza mezzi e armi per far fronte a una situazione di guerra civile a bassa intensità, così come è stata definita dal presidente della Repubblica Domenicana Luis Abinader.
Le forze dell’ordine pubblico sono state addestrate dalla Minustah, la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti, che ha operato dal 2004 al 2017, e dalle forze speciali degli Usa, ma questo non è bastato.
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In fuga da Haiti dal terremoto del 2010 in poi: migrazione senza fine
Di fronte a questa situazione si sono intensificati i flussi migratori in uscita dall’isola. I cittadini di Haiti, respinti oramai da anni dalla vicina Repubblica Domenicana (che progetta un muro sulla frontiera con Haiti), cercano di raggiungere gli Usa e il Canada.
Tapachula, città del Messico al confine con il Guatemala, da mesi vede arrivare cittadini e cittadine haitiane. La maggior parte di loro è arrivata passando per l’inferno del corridoio del Darien, la selva che separa la Colombia da Panama.
Migliaia di haitiani avevano lasciato l’isola dopo il devastante terremoto del 2010, dando inizio ad un esodo massivo e silenzioso che da allora non si è mai fermato. L’Onu stima che siano più 1, 5 milioni le persone che hanno lasciato il paese caraibico, su una popolazione di 11,5 milioni di persone.
A questi migranti si aggiunge la situazione degli oltre 135 mila apolidi in Repubblica Dominicana, «cittadini dominicani di origine haitiana che una singolare sentenza costituzionale del 2013, applicata retroattivamente a partire dal 1929, ha destituito della nazionalità sulla base di presunte irregolarità dello status migratorio familiare», come ben spiegato dall’antropologo Raul Zecca Cástel.
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Le accuse contro le Nazioni Unite
In mezzo a questa situazione d’incertezza e rivolta popolare, scoppiata per l’aumento dei prezzi del carburante, il 22 settembre 42 importanti organizzazioni sociali e politiche hanno inviato una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.
Si tratta di un documento di forte critica verso la missione Onu (la Minustah prima e il successivo contingente di mantenimento della Pace dispiegato dalle Nazioni Unite poi) che risponde con indignazione alle dichiarazioni del segretario generale sul canale televisivo francese France 24, dove ha descritto il problema ad Haiti come un’invasione di bande criminali armate.
«Noi, le organizzazioni firmatarie, vi invitiamo a ritrattare e mostrare rispetto per la lotta del popolo haitiano e riparare le enormi offese commesse contro di noi con le vostre azioni e parole dispregiative», si afferma nella nota.
La carta è immediatamente rimbalzata per tutta l’America Latina, trovando il sostegno e l’appoggio di centinaia di collettivi, associazioni e organizzazioni di tutta la regione.
«Lasci che le diciamo, signor Guterres, che la grandezza e la statura della prima Nazione Nera che vi affrontò e vi sconfisse dal 1804, creando la prima Repubblica Indipendente dei Caraibi e di tutta l’America Latina, una nazione che ammiriamo, è oggi a all’avanguardia in tante discipline della sopravvivenza e delle proposte alternative alla distruzione della vita che questo modello di civiltà occidentale ha generato e a cui la vostra organizzazione (Onu) allude costantemente. Basta ingerenze», recita il testo di sostegno alla lettera partita da Haiti.