Rohingya: situazione drammatica a 5 anni dalla fuga dal Myanmar
Cinque anni fa centinaia di migliaia di persone di etnia Rohingya sono fuggite dal Myanmar al Bangladesh sotto la minaccia del genocidio. Ecco qual è la loro (drammatica) situazione oggi
Quasi un milione di Rohingya vive ancora nel limbo del più grande complesso di campi profughi del mondo, alle porte di Cox’s Bazar, città costiera a sud-est del Bangladesh.
Cinque anni fa, esattamente il 25 agosto 2017, è cominciato l’esodo più massiccio di questa popolazione di fede islamica dal Myanmar. Le violenze perpetrate dai militari birmani hanno spinto oltre 750 mila persone a riversarsi oltre confine in cerca di un posto sicuro. Nessuno, ufficialmente, ha ancora potuto fare ritorno.
«I rimpatri devono essere volontari e possono soltanto avvenire quando in Myanmar ci saranno condizioni di sicurezza sostenibili», ha dichiarato il 17 agosto Michelle Bachelet, ex Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, durante una visita in Bangladesh a pochi giorni dalla fine del suo mandato. «Condizioni che in questo momento non ci sono», ha dichiarato a Osservatorio Diritti Regina de la Portilla, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) in Bangladesh.
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Rohingya costretti a dipendere dagli aiuti umanitari
I profughi Rohingya vivono ammassati in costruzioni di bambù e tela cerata all’interno di aree recintate con pochi servizi igienici e acqua potabile limitata, in una delle zone più vulnerabili del Bangladesh. Non sono autorizzati a spostarsi e lavorare. Solo una piccola parte dei bambini va a scuola. La loro sopravvivenza dipende interamente dagli aiuti umanitari.
«La comunità internazionale deve fornire materiale di costruzione, cibo, assistenza sanitaria, gas per cucinare», spiega de la Portilla.
«L’aumento dei prezzi legato alla guerra in Ucraina e la cronica insufficienza di fondi mettono a dura prova la capacità di rispondere ai bisogni dei Rohingya, soprattutto dei più vulnerabili: donne, bambini, persone con disabilità».
Ong e agenzie delle Nazioni Unite lavorano per formare volontari che si impegnano per la comunità in attività di sensibilizzazione o durante le emergenze come alluvioni o incendi. Ma non è ancora abbastanza per garantire una prospettiva ai rifugiati.
Dalla minaccia di genocidio a depressione e mancanza di sicurezza
Una recente indagine dell’ong Save the Children ha rilevato che l’80% dei bambini che vivono nei campi si sente depresso e l’87% dei genitori non si sente affatto più sicuro di quando è arrivato in Bangladesh 5 anni fa.
Gang armate sono responsabili di traffico di droga, estorsioni, rapimenti, attacchi all’interno dei campi.
Il 9 agosto due leader comunitari sono stati assassinati, a meno di un anno dall’omicidio di Mohib Ullah, attivista di spicco per i diritti dei Rohingya.
Secondo un’analisi dell’International Crisis Group, il deteriorarsi delle condizioni di vita nei campi profughi ha spinto un numero imprecisato di Rohingya a rientrare in Myanmar, altri a pagare un pericoloso passaggio in nave verso la Malaysia o l’Indonesia.
Rohingya trasferiti sull’isola prigione
Nel tentativo di alleviare la pressione sull’area di Cox’s Bazar, il governo del Bangladesh ha invece accelerato la ricollocazione dei rifugiati sull’isola inabitata di Basan Char, garantendo la costruzione di case in cemento. Si tratta di una lingua di sabbia formatasi negli ultimi 20 anni al largo della baia del Bengala, a tre ore di barca dalla terra ferma.
«Un’isola prigione», secondo Human Rights Watch. Un vero dilemma per le organizzazioni umanitarie, che si sono opposte a lungo trasferimento e ora si interrogano su come continuare ad assistere le migliaia di Rohingya che ci vivono.
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Rohingya alle prese con l’impossibile rimpatrio in Myanmar e le accuse di genocidio all’esercito birmano
Ma il governo bengalese ha soprattutto intensificato appelli e lavoro diplomatico per accelerare il rimpatrio dei Rohingya, nonostante la situazione in Myanmar appaia ancora più precaria dopo il colpo di stato che ha riportato i militari al potere il 4 febbraio del 2021.
Alcune settimane fa la Commission for International Justice and Accountability (Cija), un’organizzazione che indaga sui crimini di guerra, ha presentato l’esito di un’indagine durata quattro anni che individua negli alti vertici dell’esercito birmano i principali responsabili delle torture, stupri e massacri che hanno spinto i Rohingya a fuggire in Bangladesh nel 2017. L’operazione, che è stata definita da un ex Alto commissario dell’Onu per i diritti umani «un manuale sulla pulizia etnica», era stata pianificata già da anni, sostiene la Cija.
Nel frattempo, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha avviato le procedure per discutere del caso di genocidio a carico del Myanmar. A presentare l’accusa nel 2019 è stato il Gambia, sostenuto dall’Organizzazione della cooperazione islamica.
Il Myanmar, quando al governo c’era ancora Aung San Su Kyi, ha cercato di opporsi contestando l’autorità della Corte sul caso e la legittimità dell’azione del Gambia. Ma il 22 luglio la Corte ha respinto le obiezioni, decidendo di continuare il processo.