Ecuador: indigeni e governo trovano un accordo dopo 18 giorni di scontri
Dopo settimane di mobilitazioni e violenze, prevale il dialogo. L’amministrazione del presidente Guillermo Lasso taglia i prezzi dei carburanti e rallenta su esplorazione mineraria in Amazzonia e privatizzazioni di idrocarburi. È allarme per le violazioni dei diritti umani nelle manifestazioni
da Rio de Janeiro, Brasile
Dopo 18 giorni di mobilitazioni e violenze che hanno causato la morte di otto persone, centinaia di feriti e generato un grave danno all’economia del Paese, il governo dell’Ecuador e la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) hanno raggiunto un accordo preliminare, che ha avuto come primo risultato la sospensione di manifestazioni e scioperi generalizzati.
L’amministrazione del presidente Guillermo Lasso ha approcciato il tavolo delle trattative sotto scacco. In difficoltà sin dai primi cortei quanto alla gestione dell’ordine pubblico, alle strette per gli effetti del blocco delle catene di approvvigionamento e attaccato dalle opposizioni che ne hanno chiesto, pur senza fortuna, l’impeachment, alla fine l’esecutivo ha dovuto cedere su tutte le richieste delle comunità indigene.
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L’accordo in Ecuador è una vittoria per le comunità indigene dell’Amazzonia
Seduti a un tavolo promosso con garbo e risolutezza dal vertice della Conferenza episcopale ecuadoriana, monsignor Luis Cabrera, le parti hanno concluso un ampio accordo. Il patto prevede da parte del governo una ulteriore riduzione di cinque centesimi di dollaro del costo dei carburanti, oltre a quello già concesso a inizio proteste.
Concessa anche la sospensione dello stato di emergenza, condizione inderogabile per la Conaie, vista come causa della radicalizzazione delle proteste e volano delle violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine.
Il risultato politico più rilevante strappato dal leader indigeno, Leonidas Iza, al ministro del governo, Francisco Jimenez, è l’aver ottenuto dall’esecutivo l’impegno alla deroga del decreto sulla privatizzazione del settore degli idrocarburi e alla deroga dell’analogo decreto sull’attività mineraria in terre indigene. Un colpo per l’avanzamento delle riforme previste nell’agenda neo-liberale del presidente Lasso.
Sebbene la fine del confronto più violento rappresenti un buon punto di partenza, la strada di un accordo definitivo è ancora in salita. Innanzitutto il governo ha 90 giorni per poter concretizzare le promesse messe su carta. Inoltre, Leonidas Iza dovrà ancora comparire davanti alla giustizia per il processo nato dal suo arresto, poi revocato, nel corso delle proteste. Tutti elementi che offrono grandi margini di errore.
In un video istituzionale il presidente Lasso ha sottolineato che fin dal primo giorno delle manifestazioni il governo nazionale ha risposto alle esigenze sociali e mantenuto aperto il dialogo. «Diciamo a tutti che rimaniamo aperti al dialogo con risultati concreti», ha affermato. Aggiungendo che il diritto alla protesta sociale non deve essere una giustificazione per il verificarsi di eccessi e ribadendo che non permetterà la paralisi dei servizi pubblici o il sequestro di pozzi petroliferi.
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Il braccio di ferro con il presidente Guillermo Lasso
I primi cortei hanno cominciato ad attraversare le strade dell’Ecuador in direzione della capitale Quito il 13 giugno. La prima e più importante rivendicazione dei manifestanti riguardava il contenimento del prezzo dei carburanti, che in Ecuador sono aumentati del 90% nel caso del diesel e del 46% per la benzina.
Inoltre, gli indigeni chiedevano una moratoria sul pagamento dei debiti degli agricoltori, controlli sui prezzi dei prodotti agricoli, politiche per favorire l’occupazione, sospensione delle concessioni petrolifere e minerarie nei loro territori, oltre che maggiori investimenti in sanità, istruzione e sicurezza.
Sin dalle prime ore delle proteste, il governo aveva manifestato la volontà di raggiungere un accordo, ponendo però alcuni vincoli, chiedendo la fine delle proteste e imponendo lo stato d’emergenza in diverse province per poter dispiegare forze armate e polizia per reprimere le violenze.
Dopo un braccio di ferro, tra alti e bassi, le parti avevano avviato i negoziati il 27 giugno rispondendo a un appello lanciato da oltre trecento ong, forti di un supporto tecnico dell’Unione europea e della delegazione delle Nazioni Unite in Ecuador. L’apertura del negoziato aveva portato alla rimozione dello stato d’emergenza imposto nelle province del Paese: Chimborazo, Tungurahua, Cotopaxi, Pichincha, Pastaza e Imbabura.
Il presidente Guillermo Lasso aveva inoltre annunciato la riduzione dei prezzi dei combustibili: a partire dal 28 giugno i prezzi della benzina extra ed eco sono scesi da 2,55 a 2,45 dollari e il diesel da 1,90 a 1,80 dollari. «Gli ecuadoriani che cercano il dialogo troveranno un governo con la mano tesa. Chi cerca il caos, la violenza e il terrorismo, tutta la forza della legge», affermava il capo dello stato in una nota su Twitter, evidenziando di non voler scendere a patti con le frange più violente.
Quando un accordo sembrava essere a portata di mano, il governo ha però abbandonato i colloqui a seguito di un attentato attribuito ai manifestanti della Conaie contro un convoglio di carburante in cui era rimasto ucciso un militare e altri 12 erano rimasti feriti. Successivamente, grazie alla mediazione della chiesa cattolica e allo stop delle violenze, è stato possibile l’accordo.
Un elemento che potrebbe aver spinto il governo a cedere alle richieste potrebbe essere stato il tentativo di destituzione del presidente messo in atto dall’opposizione rappresentata dal gruppo parlamentare che fa riferimento all’ex presidente Rafael Correa (Unes). La mozione ha ottenuto 80 voti a favore contro i 92 necessari alla sua approvazione. Incassato il sostegno di un’Aula in cui non dispone della maggioranza, Lasso aveva rivendicato la vittoria «della istituzioni del Paese», contro «tentativi golpisti».
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Scontri in Ecuador: violazioni dei diritti umani e violenze sui bambini
Se da un lato l’amministrazione si è manifestata a favore del dialogo sin dalle prime proteste, numerose sono state le azioni repressive sofferte dalle organizzazioni promotrici delle mobilitazioni. Il ministro dell’Interno dell’Ecuador, Patricio Carrillo, ha più volte chiesto «razionalità e ragionevolezza perché prevalga il dialogo, affinché non si giunga a confronti violenti», affermando di aver dato ordini precisi alle forze dell’ordine di usare la forza «secondo i principi di legalità e proporzionalità, oltre che nel rispetto dei diritti umani».
Nonostante ciò, numerose sono state le denunce di abusi nell’utilizzo soprattutto di armi non letali da parte delle forze di sicurezza. Senza contare la violenza denunciata nelle cariche della polizia nel corso di sgomberi e altre azioni repressive presso le aree destinate ad ospitare gli indigeni venuti da tutto il Paese.
Secondo le informazioni raccolte dalla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh), nel corso delle proteste, iniziate il 13 giugno, sei persone hanno perso la vita, almeno due delle quali per colpi di armi da fuoco, e almeno 166 manifestanti e 120 agenti di polizia sono rimasti feriti. Sono state fermate 108 persone, tra cui leader sociali, e sono stati segnalati 86 gravi atti di violenza contro la stampa, sia da parte di manifestanti sia della polizia. Sono stati denunciati, inoltre, atti di violenza contro agenti e proprietà pubbliche.
Ancora più allarmanti le denunce del Comitato delle Nazioni unite per i diritti dell’infanzia, che ha espresso profonda preoccupazione per le denunce di uso della violenza contro i bambini da parte delle forze di sicurezza ecuadoriane nel corso delle proteste indette dalle comunità indigene.
«Siamo preoccupati per il numero significativo di bambini feriti. Secondo vare testimonianze attendibili forme di munizioni potenzialmente letali, come i pallini di gomma, sono state autorizzate per reprimere le proteste. Abbiamo anche ricevuto segnalazioni di bambini esposti ai gravi effetti collaterali causati dall’uso indiscriminato e sproporzionato di gas lacrimogeni, oltre che segnalazioni di bambini costretti a vagare nella capitale, non protetti e fuori contatto con i loro tutori o familiari adulti a causa delle azioni repressive dello Stato», si legge in una nota diffusa.
«Queste testimonianze indicano la profonda confusione, angoscia e paura vissuta da bambini e adolescenti a causa del caos causato dalla repressione incontrollata, che si è anche riversata in alcuni quartieri pacifici. Particolarmente grave e ingiustificabile è stato il brutale sgombero dei luoghi di raduno non violento, come la Casa de la Cultura, dove molte madri si sono radunate con i loro bambini e adolescenti», continua la nota.
«Pur accogliendo con favore la revoca dello stato di emergenza e i colloqui tra i funzionari del governo e le popolazioni indigene, il Comitato chiede che lo Stato cessi immediatamente e completamente l’uso della forza, che esula dagli standard internazionali stabiliti e che sta colpendo i bambini e gli adolescenti coinvolti in proteste e manifestazioni. Il Comitato sollecita indagini immediate sugli episodi segnalati di uso eccessivo della forza e violenza da parte degli agenti di sicurezza contro i bambini», conclude.