Reato di tortura in Italia e nel mondo: cosa prevede la giurisprudenza
Il 12 dicembre 1992 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 52/149 per eliminare la tortura nel mondo. Da allora il 26 giugno è stata proclamata Giornata internazionale a supporto delle vittime di tortura
di Michele Scolari
La tortura, pur sembrando una pratica ormai desueta, è tutt’ora presente in ogni angolo del Pianeta ed ha visto le sue modalità evolversi in modo sempre più creativo al fine di eludere le normative – ormai universali – che la vietano.
Secondo Amnesty International sono centinaia gli Stati in cui ancora oggi queste crudeltà vengono inflitte impunemente, al punto da definire tale crimine come una «pratica universalmente proibita ma universalmente praticata».
Ma qual è la normativa internazionale che ne disciplina gli aspetti principali e quale ruolo ha assunto?
Reato di tortura e giurisprudenza: divieto assoluto e inderogabile
La proibizione di commettere tortura e trattamenti disumani e degradanti costituisce uno dei principi cardine della comunità internazionale. Infatti, tale divieto può riscontrarsi in quasi ogni trattato inerente alla tutela dei diritti umani, sia a livello sovranazionale sia regionale.
I primi due documenti con rilevanza universale in cui si riscontra la proibizione di commettere tortura sono la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici.
Inoltre, l’importanza dell’argomento ha portato nel 1984 l’Assemblea delle Nazioni Unite alla creazione di una Convenzione ad hoc contro la tortura (Uncat), di cui attualmente fanno parte 173 Stati, rendendolo uno dei trattati più diffusi a livello internazionale.
Questo strumento ha anche previsto la creazione di un organismo, il Comitato contro la Tortura, il quale ha il compito di monitorare che, nel concreto, gli Stati rispettino tale proibizione, in particolare tramite la possibilità di svolgere visite negli Stati in cui si ritiene che la tortura venga commessa sistematicamente.
A livello regionale si può riscontrare lo stesso divieto nei trattati attualmente in vigore a tutela dei diritti umani: la Convenzione Europea, l’Inter-Americana ed Africana.
Infine, si parla di tortura anche nel diritto penale internazionale, potendo tale crimine rientrare sia all’interno della categoria dei crimini contro l’umanità che dei crimini di guerra.
Tutti questi documenti – unitamente alla volontà degli Stati – hanno permesso al divieto di tortura di assurgere a principio di ius cogens e, pertanto, a principio inderogabile e assoluto del diritto internazionale.
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Reato di tortura, una spiegazione necessaria
La definizione – ormai internazionalmente riconosciuta – di quali atti possano rientrare nell’alveo della fattispecie di tortura si trova all’interno dell’articolo 1 della Uncat. Secondo tale disposizione sono necessari alcuni elementi affinché si possa parlare propriamente di reato di tortura.
Innanzitutto, la condotta può ricomprendere ogni atto attraverso il quale si infliggono dolori o sofferenze acute, sia fisiche sia mentali, alla vittima.
Si richiede inoltre la presenza dell’intenzionalità dell’inflizione della sofferenza da parte degli autori che devono agire al fine di ottenere informazioni, di punire ovvero di intimidire la vittima.
L’elemento di maggior importanza è però il fatto che tali atti devono essere commessi da un pubblico ufficiale, dimostrando una chiara linea di continuità con le caratteristiche storiche di tale reato, tipicamente commesso da ufficiali statali e forze dell’ordine che li compiono con la connivenza degli stessi Stati.
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Pene e trattamenti disumani e degradanti vs reato di tortura
All’interno di quasi ogni trattato a tutela dei diritti umani si riscontra il divieto non solo di commettere tortura, ma anche di pene o trattamenti disumani e degradanti. Tali atti, però, sono solamente vietati dalla Convenzione Onu e non in essa definiti, né tantomeno qualificati.
Un principio di definizione è però riscontrabile – spesso grazie alla valutazione dei singoli casi concreti – all’interno delle sentenze delle Corte dei Diritti Umani e, in particolare, in quelle della Corte Europea.
I trattamenti e le pene disumane o degradanti, termini utilizzati spesso come un unicum, hanno un ambito di applicazione più sfumato. Ciononostante, sono generalmente definibili in modo negativo rispetto alla tortura, qualora venisse superato il livello di sofferenza minimo previsto, ma senza raggiungere il livello di gravità necessario per la fattispecie “madre”.
In certe situazioni, sono stati riconosciuti anche nel caso in cui manchi l’intenzionalità. Quest’ultimo è infatti l’ambito in cui si fa spesso ricadere, per esempio, il sovraffollamento delle carceri.
Nel corso degli anni però – soprattutto grazie alla concezione innovativa della giurisprudenza europea – fatti che prima ricadevano nell’ambito di trattamenti disumani o degradanti, sono poi stati riconosciuti di maggiore gravità e, pertanto, come tortura.
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Reato di tortura in Italia: l’art. 613 bis del codice penale
L’Italia per anni è stata una della nazioni oggetto di numerose condanne in quanto dotata di un Codice penale in cui mancava un reato specifico di tortura.
Ciò, infatti, non ha permesso di punire tutti quei fatti avvenuti in Italia che, pur rientrando nella definizione internazionale di tortura, non potevano esser puniti come tali, non poiché tali non fossero, ma a causa dell’ordinamento stesso che era sprovvisto dei mezzi per combatterli.
Questa lacuna è stata parzialmente colmata nel 2017 tramite l’introduzione dell’articolo 613-bis, permettendo anche all’Italia di raggiungere gli standard minimi internazionali. La maggiore differenza con la normativa sovranazionale è l’aver fatto venire meno il collegamento tra la fattispecie di tortura e la necessaria qualifica di pubblico ufficiale dell’agente, trasformando così il reato e permettendo che esso possa essere commesso da chiunque e non solamente da chi ha un legame con gli apparati statali.
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Perché non abbassare la guardia
Negli ultimi anni, in particolare a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle e alla successiva guerra al terrorismo voluta dagli Stati Uniti, si è visto un cambiamento radicale da parte di alcune nazioni nella percezione del divieto di tortura.
Sono infatti tristemente note le idee di Alan Dershowitz, professore di Harvard, il quale sostiene che siccome in ogni Stato ci si avvale della tortura, bisognerebbe smettere di essere ipocriti e disciplinare tutti quei casi eccezionali in cui si possa utilizzare. Secondo questa teoria, le situazioni in cui ciò potrebbe considerarsi lecito sono quelle legate al terrorismo o ad eventi in cui la sicurezza nazionale è a rischio.
Pertanto, la commissione di “tecniche di interrogatorio avanzato”, fuorviante e consapevole diverso modo di chiamare la tortura, dovrebbe essere lecita nei confronti di chi è a conoscenza di elementi utili a sventare attentati perché potrebbe salvare vite umane.
Nonostante le idee di regolamentare la tortura o in qualche modo di umanizzarla, già contraddittorie in termini, è imprescindibile discostarsi da queste concezioni, soprattutto per uno Stato che si definisca democratico, fondato storicamente sulla tutela della dignità umana.
Infatti la dignità umana è proprio quel bene che a livello internazionale viene protetto e tutelato da questo divieto assoluto che, in quanto tale, non può e non deve mai conoscere eccezioni.
Si ricordino le parole di Antonio Cassese, primo presidente del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, il quale dichiara che «la tortura costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia. […] Democrazia significa rispetto della dignità della persona; tortura significa umiliazione o annientamento di quella dignità. La tortura, perciò, alligna in tutti gli Stati illiberali o nelle pieghe autoritarie delle strutture statali democratiche».