Comunità per minorenni: emergenza educatori
Il grido d'allarme arriva dalla Lombardia, ma l'insufficienza di educatori è una questione nazionale. Intervista a Paolo Cattaneo, che con il Cnca regionale denuncia la riduzione delle risorse del Comune di Milano, dove per le residenze per care leavers e nuclei mamma-bambino «si rischia il trasferimento fuori Comune o anche fuori regione»
Le comunità per i care leavers e per i nuclei mamma-bambino rischiano il collasso: con il ribasso delle rette comunali, rispettivamente, di 5 e 10 euro, ben venti organizzazioni rinunceranno all’accreditamento, per un totale di 590 posti in meno.
A lanciare l’allarme, qualche giorno fa, è stato il Cnca Lombardia (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), dopo che l’ultimo bando “residenzialità minori” ha ridotto le risorse disponibili per due servizi in particolare: le comunità per i cosiddetti care leavers, ovvero i neo maggiorenni che, usciti dal percorso in casa famiglia, vengono accompagnati verso l’autonomia fino al compimento dei 21 anni; e le strutture che accolgono le mamme (per lo più vittime di violenza) con i loro bambini.
E non sono, quelle economiche, le uniche risorse insufficienti: anche quelle “umane” sono del tutto inadeguate, perché gli educatori sono diventati “introvabili”.
A raccontare all’agenzia del Redattore Sociale questa crisi dell’accoglienza dei minori è Paolo Cattaneo, presidente di Cnca Lombardia.
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Iniziamo dalle risorse economiche: cosa sta succedendo alle comunità per minorenni della Lombardia?
Nello specifico, succede che l’ultimo bando “residenzialità minori” del Comune di Milano abbassa le rette giornaliere per le strutture per l’autonomia destinate ai neo-maggiorenni usciti dalle case famiglia (i cosiddetti care leavers) e quelle per l’accoglienza, la protezione e il reinserimento dei nuclei genitori-bambino, che si chiamano così ma in realtà sono nuclei mamma-bambino, in cui la mamma è quasi sempre vittima di violenza. Strutture fondamentali, insomma, che oggi vedranno ridursi le rette pro capite giornaliere rispettivamente di 5 e di 10 euro. Rette che, vogliamo precisarlo, erano già gravemente insufficienti.
È un problema solo di Milano?
In particolare di Milano, sì, perché qui il Comune accredita le strutture in un modo diverso rispetto agli altri comuni della regione, tramite un bando triennale destinato alle comunità che vogliono avere la convenzione, ma in cui il prezzo è stabilito dal Comune. E questo prezzo è inferiore, in media, del 20% rispetto agli altri enti locali, tanto che da anni tutte le comunità della regione riservano un posto, al massimo due, per i bambini o le mamme di Milano.
Di conseguenza, il Comune non riesce ad avere posti sufficienti ed è costretto a cercarli presso altri enti, magari fuori regione, con conseguenze drammatiche: il bambino, il ragazzo o il nucleo mamma-figlio vengono sradicati dal proprio territorio e allontanati dalle proprie relazioni. E il Comune, paradossalmente, spende di più.
Ora, con 590 posti accreditati in meno, questa situazione si aggraverà ulteriormente. Il problema generale è quello della delega alle regioni e della mancanza di un osservatorio nazionale sulle unità di offerta per i minori in Italia: osservatorio che da anni chiediamo.
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Le risorse per le comunità per minorenni però sono state aumentate nell’ultimo bando del Comune di Milano, giusto?
Sì, ed è questo l’argomento con cui l’amministrazione si difende. Un argomento debole, in realtà, perché l’aumento è, in termini numerici, del tutto insufficiente: la retta passa da 77 a 93 euro al giorno. Siamo ancora lontani dallo standard che si trova negli altri comuni della regione, in cui la retta minima è di 110 euro. E siamo lontani anche dalla cifra che abbiamo calcolato, nel 2018, in uno studio condotto con l’economato del Comune, servizi sociali e terzo settore, da cui risulta che una comunità per minori abbia bisogno di una retta di almeno 104 euro per poter garantire gli standard e la qualità del servizio.
Intanto, i costi aumentano…
Sì, da quando abbiamo pubblicato lo studio nel 2018 a oggi, i costi sono aumentati moltissimo: pensiamo alle bollette, che soprattutto a causa della guerra sono schizzate, nelle nostre comunità, fino a 2 mila euro a bimestre. Quindi sì, da un lato è vero che, con l’aumento delle rette per le comunità per minori da 77 a 93 euro, si è fatto un passo avanti verso l’obiettivo indicato; dall’altro è vero che quell’obiettivo rischia di essere ormai una chimera.
Però almeno è iniziato un percorso: quello che non potevamo invece tollerare, né tenere sotto silenzio, è questa stangata sulle comunità per care leavers e mamme con bambini, visto anche le numerose segnalazioni che abbiamo ricevuto, perfino da parte di tante suore che gestiscono alcune di queste strutture: riduciamo le risorse per strutture e servizi fondamentali, per poi destinare il 2% del Pil agli armamenti.
L’appello del Cnca Lombardia ha avuto riscontro?
Sì, il 15 giugno avremo un incontro con il Comune di Milano sul tema: qualcosa potrebbe muoversi. Non potrà cambiare il bando per l’accreditamento, peraltro scaduto il 6 maggio, ma studieremo dei correttivi in corso d’opera.
E per quanto riguarda gli educatori?
Questo è un altro problema enorme, di carattere stavolta nazionale: gli educatori non si trovano più, tanto che in Lombardia stiamo costruendo con la Regione un percorso per andare in deroga rispetto agli standard di accreditamento.
Perché mancano queste figure nelle comunità per minorenni?
Per tanti motivi. Innanzitutto, perché le facoltà di scienze dell’educazione sono a numero chiuso, ma anche perché la professione è poco attraente rispetto ad altre, come lo psicologo e l’assistente sociale, più riconosciute culturalmente ed economicamente. E poi c’è un problema di formazione: dall’università escono persone che non hanno quasi idea di cosa sia il lavoro dell’educatore.
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Il problema di fondo è che serve una laurea per diventare educatori?
No, non la metterei in questi termini: piuttosto, il problema è aver trasferito tutta la formazione degli educatori all’interno dell’università, facendone un percorso accademico di qualche decina di esami e qualche centinaio di crediti, smarrendo tutta la parte emotiva, corporea e passionale. Il fatto che, a partire dalla legge Iori del 2017, serva un titolo per diventare educatori è per noi un successo, frutto di una battaglia che abbiamo condiviso.
Il problema è che gran parte dei nuovi educatori laureati che si presenta nelle nostre organizzazioni arriva come se arrivasse in luogo qualsiasi: la loro formazione del “saper essere e saper stare” è debolissima. Con alcune università costruiamo percorsi, per esempio abbiamo messo a punto un master per educatori di comunità con la Bicocca, ma non può essere questa la soluzione, anche perché un master costa 3 mila euro.
Qual è la soluzione?
Intanto, cambiare il piano di studi del corso di laurea, poi andare verso un adeguato riconoscimento professionale e anche economico, più vicino agli standard europei. In Francia un educatore guadagna 3.500 euro al mese. Questo incoraggerebbe anche i ragazzi che escono dalla scuola a intraprendere un percorso formativo destinato a questa professione. Ad oggi l’educatore lavora tanto, fatica moltissimo e guadagna pochissimo.
E poi, bisognerebbe ripristinare alcuni corsi professionali, per far sì che i tanti giovani senza lavoro, magari laureati in Lettere o in Psicologia, possano guardare con interesse a questa professione e iniziare non solo a studiarla, ma anche a sperimentarla tramite il tirocinio, che all’università compare solo a partire dal terzo anno.
È avvicinandosi a questo lavoro che si scopre quanto sia bello e gratificante. Dei sei ragazzi che abbiamo avuto nell’ultimo contingente del servizio civile, due hanno deciso di iscriversi a Scienze dell’educazione perché si sono innamorati di questo lavoro. È di giovani come questi che il sociale ha bisogno: dobbiamo incoraggiarli ad avventurarsi in questa professione così preziosa per il Paese.
Fonte: Redattore Sociale