Profughi ambientali: dall’esempio del caso Teitiota al consenso internazionale

Il degrado ambientale e la crisi climatica influiscono sempre di più sui movimenti migratori: secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni il numero di profughi ambientali potrebbe arrivare a 200 milioni entro il 2050. Ecco definizione, significato e dibattito giuridico in corso per un loro riconoscimento

di Alessandro Licata e Armando Massanisso

Il primo rapporto pubblicato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) nel 1990 suggerì per la prima volta l’esistenza del nesso tra cambiamento climatico e migrazioni, stimando che entro il 2050 circa 150 milioni di persone sarebbero state costrette a spostarsi a causa di desertificazione, scarsità d’acqua, alluvioni e uragani.

Rispetto a un’iniziale mancanza di dati e analisi, nel corso degli anni questi si sono moltiplicati sensibilmente e, più recentemente, il Global Compact on Refugees del 2018 dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha dichiarato che «clima, degrado ambientale e catastrofi naturali interagiscono sempre più con i fattori alla radice dei movimenti di rifugiati».  

Clima e migrazioni sono al centro del dibattito internazionale: tuttavia, nessuna protezione ad hoc è stata predisposta a tutela di coloro che fuggono dal proprio paese per ragioni ambientali.

Significato di “rifugiati climatici”: una definizione controversa

L’espressione “rifugiato climatico”, notoriamente usata nel dibattito pubblico, non è riconosciuta in nessuna norma di diritto internazionale: la Convenzione sui Rifugiati di Ginevra (1951) definisce “rifugiato” colui che attraversa una frontiera internazionale «a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica», senza far alcun riferimento alle vittime del degrado ambientale.

Tale espressione è stata giudicata «impropria» dall’Unchr poiché non tutte le migrazioni indotte dal cambiamento climatico comportano l’attraversamento di frontiere internazionali: molti movimenti migratori indotti dalla crisi climatica si svolgono all’interno del paese di origine.

In assenza di una specifica definizione normativa, la decisione del Comitato Onu per i diritti civili e politici sul caso Teitiota vs. New Zealand ha aperto nuove prospettive per la tutela di coloro che fuggono dagli effetti del cambiamento climatico e dal degrado ambientale.

La decisione trae origine dal ricorso con cui il signor Teitiota, cittadino della Repubblica di Kiribati (Pacifico centrale), si oppose al rimpatrio ordinato dalla Nuova Zelanda verso il suo paese di origine, soggetto a gravi fenomeni di degrado ambientale e instabilità sociale indotti dalla crisi climatica.

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Deserto in Marocco – Foto: via Pixabay

Profughi ambientali in lotta per la terra: l’esempio della Repubblica di Kiribati

La Repubblica di Kiribati è costituita da un arcipelago di isole dell’Oceano Pacifico, situate a soli 3 metri al di sopra del livello del mare.

Negli ultimi decenni il cambiamento climatico ha contribuito all’innalzamento del livello del mare, il quale ha provocato la costante erosione del suolo necessario per le coltivazioni e gli insediamenti, l’aumento delle inondazioni e la contaminazione delle già scarse fonti di acqua potabile.

La scarsità di risorse e la grave crisi abitativa conseguente a questi eventi ha provocato forti tensioni sociali, spingendo il signor Teitiota a stabilirsi in Nuova Zelanda.

Nel 2013, di fronte all’impossibilità di rinnovare il proprio permesso di soggiorno, il signor Teitiota decise di presentare domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato: le autorità giudiziarie della Nuova Zelanda non accolsero la richiesta e ne ordinarono il rimpatrio.

Nel 2015, esaurite tutte le vie giurisdizionali presso le corti della Nuova Zelanda, il signor Teitiota decise di rivolgersi al Comitato Onu per i diritti civili e politici.

Nel ricorso presentato al Comitato, Teitiota sostenne che nei successivi 10-15 anni l’innalzamento del livello del mare avrebbe reso inabitabili le isole dell’arcipelago e che, pertanto, il rimpatrio verso Kiribati costituiva una violazione del diritto alla vita, sancito dall’articolo 6 della Convenzione sui diritti civili e politici.

Il Comitato Onu, con la comunicazione n. 2727/2016, riconobbe la situazione di dissesto ambientale descritta dal ricorrente, ma osservò che la Repubblica di Kiribati aveva già adottato dei provvedimenti a tutela della popolazione e che altri, in futuro, sarebbero stati implementati. La vita del signor Teitiota non venne considerata in pericolo e il ricorso fu rigettato.

Profughi ambietali e principio di non respingimento: la decisione dell’Onu

Nonostante l’esito sfavorevole del ricorso, le considerazioni del Comitato Onu hanno aperto nuovi orizzonti di tutela per i migranti climatici e ambientali.

La decisione riconobbe che gli eventi climatici, sia a rapida sia a lenta insorgenza, possono indurre gli individui a cercare protezione in altri Paesi. Inoltre, venne riconosciuto che il degrado ambientale e i cambiamenti climatici possono comportare una violazione del diritto alla vitae del divieto di trattamenti degradanti, tutelati dagli articoli 6 e 7 della Convenzione sui diritti civili e politici.

In accordo a tali principi, il Comitato stabilì che coloro che fuggono dagli effetti dei cambiamenti climatici e dei disastri naturali non possono essere rimpatriati qualora il Paese di origine presenti situazioni incompatibili con la tutela dei diritti fondamentali.

Si registra pertanto un ampliamento del principio di non respingimento: non solo le circostanze elencate dall’art. 33 della Convenzione sui Rifugiati, ma qualsiasi situazione del paese di origine che determini una violazione dei diritti fondamentali, come ad esempio il cambiamento climatico, vieta agli stati di rimpatriare i richiedenti asilo.

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Campo profughi in Eritrea – Foto: via Pixabay

Rifugiati ambientali: la situazione in Italia

Nell’ordinamento giuridico italiano non vi è ancora una tutela ad hoc per i migranti climatici: l’unica forma di tutela è costituita dagli articoli 19 e 20 del Testo Unico sulla immigrazione, modificato dal decreto Lamorgese (2020).

Tali disposizioni includono tra le ipotesi di riconoscimento della protezione umanitaria le «gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi ad un rimpatrio in dignità in sicurezza», il cui accertamento è tuttavia rimesso alla valutazione discrezionale del questore.

Con l’ordinanza n. 5022/2021 la Corte di Cassazione, riprendendo le osservazioni del Comitato in relazione al caso Teitiota, ha accolto il ricorso presentato da un cittadino nigeriano la cui richiesta di protezione internazionale era stata respinta in primo grado.

La richiesta di asilo era motivata dall’esistenza di una situazione di dissesto ambientale nella regione del delta del Niger, provocata dall’attività delle compagnie petrolifere: il giudice di primo grado non ritenne tali circostanze sufficienti a dimostrare l’esistenza di una «situazione di pericolo», tale da giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria.

La Corte di Cassazione riconobbe che la sussistenza di una situazione di pericolo non è legata solo all’ipotesi del conflitto armato, ma più in generale ad ogni situazione in grado di ostacolare il godimento dei diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al di sotto di una soglia minima che viene identificata nel concetto di «nucleo ineliminabile costitutivo della dignità personale».

L’ordinanza 5022/2021 adottò lo stesso principio sancito dal Comitato Onu: con una chiara evidenza di un problema ambientale o climatico, la richiesta di asilo può essere accolta.

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Gli effetti di un’alluvione – Foto: via Pixabay

Profughi ambientali: cambiamento climatico e migrazioni forzate

Malgrado il dinamismo giurisprudenziale, il consenso internazionale sul riconoscimento dei migranti climatici è ancora incerto.

Nonostante il primo riconoscimento internazionale dell’interconnessione tra cambiamento climatico e migrazioni formalizzato nel 2010 dalla UN Climate Change Conference (Cop 16), l’Accordo di Parigi sul Clima (2016) riconobbe la necessità di proteggere i diritti umani dei migranti e affrontare l’impatto del cambiamento climatico sulle migrazioni solamente nella sua bozza iniziale e non nella versione definitiva.

La Cop 26 di Glasgow (2021), allo stesso modo, ha ribadito il dovere degli Stati di rispettare i diritti umani dei migranti nell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici. Inoltre, è stata nuovamente sottolineata l’importanza della giustizia climatica nella lotta agli effetti climatici: questa comporta il riconoscimento delle diverse responsabilità di fronte ai cambiamenti climatici e la ricerca di giustizia sociale per le persone più vulnerabili agli impatti negativi dei cambiamenti climatici.

Tali accordi internazionali riflettono tuttavia la riluttanza degli Stati ad assumersi precisi obblighi «sia nell’ambito della lotta al cambiamento climatico sia nella gestione della migrazione». A mancare, soprattutto, è il pieno riconoscimento dell’esistenza dei migranti climatici e, di conseguenza, della loro protezione sul piano giuridico e umanitario.

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