Libia oggi: situazione umanitaria drammatica, crisi politica e violazione dei diritti
A undici anni dalla caduta di Gheddafi il processo di transizione verso la pace è in mezzo a un guado: l’instabilità politica e le sistematiche violazioni dei diritti umani rendono il quadro ancora molto complesso
di Loide Cambisano
In Libia, all’inizio di quest’anno, si sarebbero dovute tenere le elezioni. L’aspettativa era formare un governo democratico che avrebbe amministrato il Paese con il supporto degli elettori, ma oggi al suo posto ci sono due esecutivi concorrenti e rivali. Per un Paese dalla storia recente tanto travagliata, quest’ennesimo cambio di programma sta creando non pochi problemi.
Da una parte, a Tripoli, c’è il governo di Abdul Hamid Dbeibah: originariamente nominato per gestire la fase di transizione verso le elezioni per un governo democraticamente eletto.
Dall’altra parte, a Tobruk, c’è Fathi Bashagha: ex ministro degli Interni, è stato nominato lo scorso 10 febbraio dalla Camera dei rappresentanti libica in risposta al nuovo fallimento del governo di transizione nell’organizzazione delle elezioni. A irritare la Camera, soprattutto, c’è la circostanza che già nel dicembre 2021 e a sole 48 ore dal voto era stato annunciato il primo rinvio.
Elezioni in Libia: la situazione e le cause del rinvio
E così lo scisma si è realizzato. Ad aver frustrato l’apertura dei seggi c’è il clima teso che, nonostante l’accordo di cessate il fuoco dell’ottobre 2020, non ha mai lasciato il Paese, l’incombente presenza delle milizie e la frammentazione politica. Nodi particolarmente polemici in questo contesto erano stati proprio i criteri di selezione dei candidati, tra cui alcuni personaggi controversi come lo stesso Ddeibbah, Khalifa Haftar (l’ex capo dell’Esercito nazionale libico) e il figlio minore di Gheddafi, Saif al Islam.
Ddeibah ha dichiarato che si farà da parte solo per lasciare il posto a un governo eletto dal popolo e non nominato dal parlamento e alle sue spalle resta saldo l’appoggio della comunità internazionale che, attraverso Stephanie Williams, Consigliera speciale dell’Onu per la Libia, ha annunciato l’obiettivo di traghettare il Paese verso il voto il più presto possibile, si pensa il prossimo giugno. Sotto la supervisione della consigliera il 13 aprile è cominciato al Cairo il primo ciclo di dialogo tra Camera dei Rappresentanti e Alto consiglio di Stato.
Al di là dei proclami, la comunità internazionale ha malnascosto la preoccupazione di un’escalation militare: in questo quadro ogni provocazione rischia di aprire la strada alla violenza incontrollata, anche se, per il momento, Bashagha ha fatto sapere che prenderà posto a Tripoli pacificamente.
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La denuncia dell’Onu: violenza di genere e discriminazione in Libia
La polarizzazione dei giochi di potere, che in Libia ha tutto il sapore di un déjà-vu, incide negativamente sulla già critica situazione dei diritti umani nel Paese. Di recente, infatti, l’Ufficio Onu per gli Affari Umanitari (Ocha) ha annunciato che in Libia oltre 800.000 persone hanno urgente bisogno di aiuti umanitari.
Non solo: violenza di genere, sparizioni forzate, violazioni del diritto umanitario, torture e assassinii sono solo alcuni dei crimini denunciati dalla commissione d’inchiesta nominata dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu per indagare la situazione nel Paese. Gli esperti avevano rilasciato un primo report il 1° ottobre 2021, cui è seguito un aggiornamento completo di ulteriori e più recenti avvenimenti diffuso lo scorso 28 marzo.
Secondo il documento, alle violazioni del diritto di partecipazione alla vita pubblica e di scelta dei propri rappresentanti politici, in Libia il fermento elettorale ha inasprito anche discriminazione e violenze di genere: diverse donne impegnate in politica sono stata uccise o sono state vittime di sparizione forzata nel silenzio dello Stato. Nel Paese è stata addirittura lanciata una campagna contro la parità di genere, caratterizzata da una certa ricchezza di discorsi d’odio e da incitamento alla violenza contro le attiviste del settore.
Un’altra categoria particolarmente a rischio è quella dei giornalisti, che insieme a società civile, attivisti e difensori dei diritti umani in genere sono stati il bersaglio sia di gravi attacchi mirati, sia di misure legislative e regolamentari ad hoc (tra cui la legge contro la criminalità informatica ratificata il 26 ottobre 2021), che hanno lo scopo di limitare l’esercizio del diritto di espressione.
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La situazione dei migranti in Libia oggi
Il report sottolinea che però i soggetti più vulnerabili in Libia sono i migranti di ogni nazionalità che, nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, vengono intercettati a terra o in mare dalla Guardia costiera libica: il destino di gran parte di loro è lo smistamento in centri di detenzione che ormai la stampa non ha più remore a chiamare “lager“.
Detenuti in via del tutto arbitraria e contro la propria volontà in questi luoghi dove la tubercolosi fa più paura del Covid, migranti, rifugiati e richiedenti asilo di varia età, provenienza, genere ed estrazione sociale sono sottoposti a tortura, trattamenti disumani e degradanti, violenza sessuale, morte.
Nel documento viene trascritta anche la testimonianza di uno dei sopravvissuti ai centri di detenzione:
«Dopo essere stato rapit* dai trafficanti in Libia sono stat* torturat* in diversi modi. Mi hanno bruciat* con le sigarette. Mi hanno versato addosso della benzina e hanno tentato di darmi fuoco. Hanno legato ognuna delle mie braccia a un’auto e hanno minacciato di guidare per strapparmele. Sono stat* penetrat* con un coltello, con una mazza da baseball e anche con un manico di scopa. Sono stat* filmat* dai miei rapitori, che mi hanno poi minacciato di diffondere il video».
Sarebbe inoltre giunta da più voci la notizia che a Bani Walid, uno dei centri di detenzione nei dintorni di Misurata più rinomati per il numero e la brutalità degli abusi perpetrati tra le sue mura, delle fosse comuni raccoglierebbero i cadaveri dei detenuti morti di malattia, violenze e fame. E il funzionamento delle fosse sarebbe lasciato ai compagni di prigionia.
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Presunti carcerieri di migranti in Libia condannati a 20 anni di carcere
Se la regola per tutte queste gravi violazioni dei diritti umani è l’impunità, Pazurl Sohel e Harun Md sono l’eccezione. I due erano carcerieri di origine bengalese in uno dei centri di detenzione libici da cui contattavano le famiglie dei prigionieri per offrire la loro liberazione in cambio di un riscatto.
Dopo essere sbarcati a Lampedusa il 28 maggio 2020, sono stati sottoposti a fermo ad Agrigento (grazie anche, oltre alle testimonianze di alcune delle presunte vittime giunte in Italia in uno sbarco successivo, alle foto postate su Faceboook che ritraevano i due con i kalashnikov) e un paio di mesi fa il Gup di Palermo li ha condannati a 20 anni di carcere per tortura, tratta di esseri umani, sequestro di persona a scopo di estorsione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Ma mentre nelle aule del tribunale di Palermo si fa luce su una piccolissima porzione di responsabilità, l’Italia e l’Europa continuano a collaborare con la Guardia costiera libica.In particolare, l’Unione europea dal 2015 ad oggi ha destinato circa 700 milioni di euro alla Libia nell’affannoso sforzo di gestire i migranti in entrata.
Una nota di dissenso è da poco arrivata da parte della Germania, il cui ministero degli Esteri ha fatto sapere il 31 marzo che il governo tedesco non può più giustificare l’addestramento della Guardia costiera libica da parte delle forze tedesche alla luce delle inaccettabili violenze da essa commesse.
Memorandum d’intesa Italia – Libia e dossier alla Corte penale internazionale
Il governo italiano non si indigna: nel Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2017 i lager prendono il nome di «centri di accoglienza» e l’Italia garantisce alla Libia il finanziamento, l’addestramento militare e la fornitura di mezzi agli ufficiali della sua Guardia costiera. L’accordo Italia-Libia, già rinnovato nel 2020, sarà operativo fino a febbraio 2023 se non ne verrà disposta la fine entro il prossimo novembre 2022.
Nel frattempo, il 3 giugno 2019 Juan Branco e Omer Shatz, professionisti nella difesa legale dei diritti umani, hanno depositato un dossier alla Corte penale internazionale chiedendo l’apertura di un procedimento che accerti la responsabilità dell’Ue e dell’Italia e per la morte delle migliaia di esseri umani annegati nel Mediterraneo.
Che siano le sistematiche e strutturali violazioni dei diritti umani a impedire il consolidarsi di pace e democrazia, come rammenta l’Onu, o che al contrario sia l’instabilità della Libia ad alimentare le continue violenze, in questo circolo vizioso resta doveroso accertare le responsabilità di tutti gli attori in gioco, anche e soprattutto quelli esterni.