Indigeni Colombia: Emberá accampati nel Parco Nazionale di Bogotá
In periodo elettorale le autorità locali mostrano di facilitare il ritorno degli indigeni Emberá nelle zone di orgine, ma nel Parco Nazionale di Bogotá si può osservare una ferita aperta del conflitto in Colombia: donne, bambini e anziani vivono nelle tende, esposti a freddo, contagi e attacchi razzisti
da San Paolo, Brasile
«Con plastica e coperte, un gruppo di 350 indigeni della comunità indigena Emberá ha allestito un accampamento per passare la notte nel Parco Nazionale, nella parte orientale di Bogotá, dopo la fine dell’aiuto finanziario che l’Unità vittime e il Distretto avevano dato loro da quando, più di un anno e mezzo fa, furono costretti a fuggire dai loro territori di Chocó e Pereira per la violenza del conflitto». Questa era la notizia che riportava El Espectador, uno dei principali giornali della Colombia il 30 settembre 2021.
Gli aiuti umanitari destinati dall’amministrazione pubblica di Bogotá e dal governo nazionale per rispondere a quest’emergenza ammontano, secondo quando dichiarato alla stampa locale da Luis Ernesto Gómez, segretario di governo a Bogotá, a 1.700 milioni di pesos colombiani, pari a circca 400 mila euro.
Circa 8 mesi fa, però, gli aiuti sono stati interrotti perchè erano di carattere temponeo e umanitario e sono iniziate le negoziazioni tra gli indigeni Emberá e le autorità per trovare una soluzione abitativa e sgomberare l’accampamento. L’obiettivo è quello di facilitare il rientro degli indigeni nei territori d’origine o muoverli in un’altra zona della città. Ad oggi, però, la situazione non è cambiata.
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Indigeni Colombia: un accampamento nel cuore di Bogotá
Decine di tende nere coprono il sottobosco del Parco Nazionale, luogo simbolo delle rivolte sociali iniziate il 28 aprile 2021. Questo è il panorama che si trova davanti chi cammina per l’Avenida Carrera 7, arteria centrale della capitale colombiana.
Vestiti stesi ad asciugare al sole nel clima capriccioso di Bogotá, fuochi accesi per scaldare del cibo e combattere il freddo, bambini (alle volte completamente nudi) che giocano correndo tra il marciapiede e gli accessi al parco, donne che allattano i più piccoli, posti di vendita di oggetti di artigianato e uomini con bastone che vigilano l’ingresso all’accampamento. E solo un paio di bagni pubblici permettono di sopperire ai bisogni di base di centinaia di persone. Una fotografia inusuale di questa zona della città, che attira la curiosità dei turisti ma che genera spesso il fastidio dei vicini e dei bogotani in generale.
Da un lato si trovano le richieste di aiuto delle centinaia di famiglie di indigeni che nel corso degli ultimi mesi si sono sommati ai primi 350 arrivati nel parco: non esiste un censimento ufficiale, ma le stime parlano di 1.300 persone, tra le quali almeno 500 bambini. Manca il cibo, il freddo alle volte è pungente (Bogotá è chiamata dai colombiani “il frigorifero” per il suo clima spesso rigido), ratti e altri animali popolano il parco e le precarie condizioni igienico sanitarie espongono le persone a possibili epidemie.
Dall’altro, ci sono le lamentele delle persone che vivono nella zone limitrofe: vicini che vedono come gli alberi del Parco Nazionale vengono tagliati per procurare combustibile e che denunciano il grande consumo di alcool e l’aumento dei mendicanti indigeni intorno al parco.
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Popoli indigeni, una situazione insostenibile
Le autorità della capitale, fanno sapere di aver offerto alle famiglie indigene una possibilità di ricollocamento degna e rispettosa in altre zone della città o nel loro territorio di origine, affermazione però che non corrisponde con quanto dichiarato dai rappresentanti indigeni.
Gli Emberá vogliono poter ritornare con sicurezza nelle loro terre nel Cauca, Risaralda e Chocó, ma nonostante quanto affermato dal governo centrale la situazione di violenza generalizzata non è migliorata in quelle zone e non esistono garanzie reali per un ritorno.
Nel frattempo il livello di tensione a Bogotá tra la cittadinanza e gli indigeni sta raggiungendo il punto critico. A dimostrazione ci sono i tragici fatti del 25 gennaio scorso, che consegnano uno scenario sconfortante che ha generato paura, rabbia e caos.
Martedi 25 gennaio, infatti, nella via nazionale Funza-Siberia – vicino al parco La Florida, dove accampano altre famiglie Emberá – un camion municipale di raccolta dell’immondizia ha investito e ucciso la donna indigena Ermilda Tunay Sintua (36 anni) e sua figlia Sara Camila García Tunay, di un anno e nove mesi. Ermilda inoltre era in stato avanzato di gravidanza e sia lei sia la figlia sono morte sul colpo.
Dopo il tragico incidente le autorità intervenute sul posto non sono riuscite a frenare la furia della folla di indigeni che ha linciato sul posto l’autista del veicolo, Hidelbrando Rivera García, di 60 anni, morto poco dopo in ospedale per le ferite riportate.
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Indigeni e gruppi armati colombiani: il reclutamento forzato dei bambini
I popoli indigeni portano avanti da decenni una storica contesa per la loro terra ancestrale e sono spesso le prime vittime di un conflitto dove diversi attori lottano per conquistare il controllo di aree strategiche per il narcotraffico.
Dopo l’accordo di Pace fimato tra il governo colombiano e la guerriglia delle Farc nel 2016, Bogotá ha già accolto quasi 400 mila persone sfollate dalla violenza che imperversa ancora in diverse zone del paese: tra queste, quasi 20 mila (il 5%) sono indigeni.
Non solo la violenza generalizzata come causa della fuga delle famgilie indigene, ma anche i reclutamenti forzati di minori da parte dei diversi gruppi armati che si contendono il territorio.
Sono terribili infatti i numeri che Gerardo Jumi Tapia, consigliere generale dell’Organizzazione nazionle indigena della Colombia (Onic), ha rilasciato alla stampa locale il 18 marzo. Jumi Tapia ha dichiarato che più di 30 bambini e adolescenti indigeni si sono tolti la vita per evitare di essere reclutati dai dissidenti delle Farc, dell’Esercito di liberazione nazionale e delle Forze di autodifesa gaitaniste della Colombia (Agc) negli ultimi anni.
Il suicidio, secondo il consigliere di Onic, è diventato un “metodo di protezione” per i bambini e gli adolescenti indigeni che non vogliono far parte dei ranghi dei gruppi armati illegali.