Lungo sopravviventi: hanno sconfitto il cancro, ma devono lottare per essere riconosciuti

Da bambini sono guariti da un tumore, ma gli strascichi delle cure possono durare tutta la vita. I lungo sopravviventi vivono in una "terra di mezzo", in cui a non essere riconosciuti sono i diritti di chi "non era previsto"

Chiedere un mutuo, trovare un lavoro, diventare genitore è difficile per i lungo sopravviventi, un termine da “terra di mezzo” in cui si trovano gli ex pazienti oncologici pediatrici e dove a essere negati sono anche alcuni dei diritti più basilari. Perché se da un lato un lungo sopravvivente è etichettato con lo stigma del tumore, dall’altro si pretende di ignorare gli strascichi fisici, e in alcuni casi psicologici, lasciati dalle cure chemioterapiche e dagli interventi chirurgici a cui si sono sottoposti da bambini per sconfiggere la malattia.

La legge è più che altro quella dei numeri e cifre troppo basse non attirano l’attenzione. Per trovare dati aggiornati si deve tornare allo studio pubblicato sull’International Journal of Cancer nel 2010  dal professor Luigino di Maso e altri ricercatori che stimava in Italia circa 44 mila lungo sopravvissuti a un tumore pediatrico diagnosticato tra il 1960 e il 1990.

Numeri destinati a crescere nel momento in cui, per fortuna, la ricerca ha permesso di salvare dai tumori pediatrici sempre più bambini. E anche se la medicina anche in questo campo è in grado di assicurare cure più “intelligenti” e con meno effetti collaterali importanti, nessuno può conoscere ora quello che sarà lo stato di salute dei piccoli pazienti tra decenni.

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Lungo sopravviventi e cancro: «Ho sconfitto il neuroblastoma a 5 mesi, ma oggi la lotta è per i miei diritti»

Chi è guarito nei decenni passati sta già provando sulla sua pelle cosa significhi essere un lungo sopravvivente. Tra loro c’è Giulia Panizza, che oggi ha 41 anni. A soli 5 mesi per lei arrivò la diagnosi di neuroblastoma, un tumore infantile che colpisce soprattutto i bambini ed è la prima causa di morte entro il primo anno di vita e, sempre in età pediatrica, il terzo tumore per frequenza dopo le leucemie e i tumori cerebrali pediatrici.

Era il 1981 e la sopravvivenza di Giulia non era prevista. Ma per fortuna una diagnosi molto precoce e il fatto di trovarsi nella stessa città di uno degli  istituti più all’avanguardia anche a quei tempi, l’Ospedale Gaslini di Genova, le hanno permesso di stupire statistiche e aspettative mediche.

Vinta la partita con il neuroblastoma quando ancora era troppo piccola per averne un ricordo nitido, Giulia non ha potuto mai scordarsene del tutto. Dal punto di vista fisico chemioterapia e chirurgia le hanno causato danni posturali e motori perenni e ancora oggi Giulia, che vive la sua vita, lavora ed è una mamma, si deve scontrare con una burocrazia che non è mai dalla sua parte.

«La prima volta che ho fatto domanda di invalidità mi è stata riconosciuto un punteggio del 46 per cento. Mi sono sempre data da fare e mentre studiavo all’università, davanti a una seconda commissione medica che mi chiedeva se conducessi una vita normale, ho risposto ingenuamente sì, che frequentavo le lezioni e studiavo con profitto, e questo ha determinato la mia completa riabilitazione, sono passata allo 0% di invalidità. Oggi mi rendo conto che sarebbe bastato descrivere meglio la mia condizione reale, perché nella mia vita “normale” io non posso nemmeno andare al supermercato a comprare una confezione intera di acqua, non potrei sollevarla».

Dopo nuovi tentativi, oggi Giulia ha ottenuto un punteggio di invalidità del 67%, con cui si è potuta iscrivere nelle liste di collocamento come categoria protetta, ma senza nessun altro tipo di agevolazione. Così, dopo avere lavorato per 10 anni all’Università di Genova dopo la sua laurea in Conservazione dei beni culturali, per necessità economiche ha cambiato lavoro e se ora è soddisfatta del suo impiego deve ringraziare la sua tenacia e il fatto di avere trovato un’azienda che ha deciso di scommettere su di lei.

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Genitorialità sì, genitorialità no: un’impasse senza senso

Gli aiuti, per Giulia, non sono arrivati nemmeno quando, appena dopo il parto, ha perso completamente l’uso delle braccia. «Gli accertamenti hanno portato a una diagnosi di sindrome del tunnel carpale bilaterale, probabilmente causata da una reazione autoimmune legata alla mia malattia. È difficile da stabilire e così mi sono ritrovata a occuparmi di mio figlio appena nato senza essere in grado nemmeno di sorreggerlo. Ho pagato di tasca mia tutti gli aiuti di cui ho avuto bisogno e sto rimandando da 5 anni l’intervento che sarebbe necessario a entrambi gli arti perché non posso permettermi di fermarmi per un mese intero», ha spiegato Giulia.

Nel caso di Giulia la maternità stessa è stata un traguardo inaspettato, anche questa volta una rivincita nei confronti di percentuali che stavano indirizzando lei e suo marito verso l’adozione. «Sono rimasta incinta prima di cominciare un vero e proprio processo di adozione, che comunque mi sarebbe stato probabilmente precluso proprio per la mia condizione», ha riferito Giulia.

Questo non tanto per la pregressa diagnosi di neuroblastoma, anche se per una persona che ha sconfitto il cancro e che vuole diventare genitore le procedure per l’adozione sono ancora più complesse e dagli esiti non sempre certi.  Il problema è che un lungo sopravvivente non dà garanzie di tutela del maggiore interesse del minore. In pratica, nessuno può dire come starà tra qualche anno o qualche decennio.

«È questo il senso della contraddizione che vivono le persone come me. Se diventi genitore non hai diritto a nessun sostegno, da quelli economici ai congedi parentali e così via, ma allo stesso tempo non ti considerano idoneo a diventarlo. Insomma, perché immaginare qualcosa di diverso per chi in pratica non dovrebbe esserci?».

«Non posso sottoscrivere un’assicurazione, nessuno scommette su di noi»

Per comprare casa vale lo stesso principio. «Se non ci fosse mio marito, non avrei potuto accedere al mutuo perché non posso stipulare un’assicurazione sulla vita, che in questo caso è considerata una garanzia accessoria, il che in pratica la rende obbligatoria».

Le difficoltà a sottoscrivere una copertura assicurativa è un nodo spinoso per tutti coloro che hanno avuto un tumore, tant’è che negli ultimi tempi si discute molto del cosiddetto diritto all’oblio. Il diritto, cioè, di chi è completamente guarito da un tumore e non necessita di ulteriori trattamenti, circa un milione in Italia, di lasciarsi tutto completamente alle spalle e non vivere più lo stigma del tumore.

Un diritto sacrosanto, ma per i lungo sopravviventi la questione è complessa. «Chiediamo di essere riconosciuti per i nostri reali bisogni, perché oltre alla fase acuta ci sono problematiche che noi dovremo affrontare per tutta la nostra vita».

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La tutela dei lungo sopravviventi: una carta d’identità per i pazienti

Per ora quello di “lungo sopravvivente” resta dunque per la legge un termine vuoto. Non lo è da un punto di vista medico, tanto che esiste un progetto internazionale, ancora non molto diffuso: il survivor passport (passaporto del guarito) per il follow-up a distanza dei soggetti curati per tumore in età pediatrica. «Si tratta di una sorta di carta d’identità che i pazienti possono usare per essere seguiti con le cure e gli accertamenti necessari in qualsiasi ospedale si vogliano recare», spiega Massimo Conte, pediatra dell’Ospedale Gaslini.

Nell’ospedale pediatrico genovese, che è coordinatore del progetto in Italia, è stato aperto un ambulatorio dal nome, che pare evocativo, di Dopo (Diagnosi, Osservazione, Prevenzione dopo terapia Oncologica).

«I bambini che hanno ricevuto trattamenti radiochemioterapici devono essere considerati guariti, ma devono essere anche tutelati perché hanno necessità di monitorare problemi che spesso possono diventare cronici e richiedere cure per molti anni», spiega Conte. Perché le difficoltà sono di tanti tipi, compresa quello della cosiddetta transizione, ovvero il momento in cui il paziente pediatrico diventa adulto.

«Quello della transizione è un problema aperto e spinoso perché le persone guarite da un tumore da bambini sono pazienti che rimangono sotto la tutela del pediatra nei primi anni, ma poi da adulti devono essere appoggiati alla sanità dell’adulto e il passaggio non è sempre lineare, anche se fortunatamente le collaborazioni oggi sono migliorate», dice Conte.

Neuroblastoma, una malattia rara che ha bisogno di ricerca

Massimo Conte è anche vice-presidente dell’Associazione italiana per la lotta al neuroblastoma. «Oggi possiamo dire che 2 bambini su 3 possono guarire dal neuroblastoma, grazie anche alla ricerca che negli ultimi 15 anni sta lavorando molto alacremente sia per identificare nuovi target terapeutici con farmaci in grado di colpire precise cellule tumorali sia per conoscere sempre meglio il meccanismo che sottende a questa neoplasia. Di neuroblastoma si parla sempre poco, è una patologia assolutamente rara e poco conosciuta anche in ambiti specialistici. Parliamo di 150 casi all’anno, numeri irrisori se paragonati a big killer dell’adulto come il carcinoma del polmone o dell’intestino. È anche per questo che non attira fondi istituzionali sufficienti per sostenere interamente la ricerca, che senza l’attività delle associazioni non sarebbe probabilmente arrivata ai progressi di oggi».

Eppure la ricerca è un aspetto fondamentale anche per migliorare la vita dei lungo sopravviventi. «Anche grazie alla ricerca i lungo sopravviventi oggi sono sempre di più, il che naturalmente è una fortuna, ma comporta anche più attenzione verso questi pazienti,  per cui si rende sempre necessario il monitoraggio delle tossicità tardive. Si tratta di persone che devono essere tutelate non solo in ambito medico, ma anche nel loro  inserimento sociale,  in ambito lavorativo, sportivo e così via. Al contrario, rischiano di rimanere soltanto con un bollino addosso», conclude Conte.

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