Diritto umanitario internazionale: in guerra non vale tutto
Gli attacchi russi alla popolazione civile ucraina nel corso delle guerra costituiscono spesso violazioni al diritto umanitario internazionale. Anche i conflitti armati hanno delle regole, che non possono essere violate impunemente: ecco quali sono
di Irene Bardazzi
Siamo abituati a vivere in un mondo di regole, che però sembrano venir meno nel contesto più eccezionale: la guerra. Il mezzo tramite il quale si cerca di arrivare alla vittoria è disumano, ma pare universalmente accettato, perché si sa, è necessario sopraffare l’avversario per portarlo alla resa.
L’opinione pubblica non si è abituata alle terribili scene di guerra, ma in un certo senso si aspetta che lo scontro sia senza esclusione di colpi e, soprattutto, che per azioni tanto crudeli vi possano essere conseguenze altrettanto severe. Come il conflitto tra Ucraina e Russia sembra dimostrare proprio in queste settimane.
Diritto umanitario internazionale: Convenzioni di Ginevra e altri trattati
Ebbene, la realtà, almeno dal punto di vista del diritto, è diversa: anche i conflitti armati sono giuridicamente disciplinati, in particolare dal diritto umanitario internazionale. Un diritto particolare, che nasce da una violazione stessa della norma più fondamentale tra tutte: il divieto di ricorrere alla guerra.
Le quattro Convenzioni di Ginevra (1949) a tutela di feriti e malati, prigionieri di guerra e civili (perfezionate dai due successivi protocolli aggiuntivi del 1977), contengono i principi e gli obblighi del diritto umanitario.
Non solo, ne sono parte anche tutti quei successivi trattati internazionali riguardanti temi specifici (Convenzione sulle armi chimiche, Convenzione internazionale sulle bombe a grappolo, ecc.). Nell’insieme, tali documenti vanno a determinare, in sostanza, il comportamento che le parti devono tenere durante un conflitto armato.
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Diritto umanitario e conflitti armati: la popolazione civile non si attacca
Uno dei principi fondamentali del diritto internazionale umanitario è il principio di distinzione tra obiettivi militari e civili (art. 48 del Protocollo aggiuntivo I), la cui conseguenza è lo speculare principio di immunità per la popolazione civile.
Nella pratica, tale principio si suddivide in una serie di obblighi per la potenza attaccante (art. 51 Protocollo I) e per il paese attaccato. Vige sulle parti in conflitto un dovere di precauzione nello sferrare un qualsiasi attacco, che si sostanzia innanzitutto nell’obbligo a rinunciare o a interrompere un’operazione militare contraria al principio di distinzione. In altre parole, nel momento in cui ci si rende conto che vi sono dei civili presenti sull’obiettivo che si vuole colpire, si deve desistere dal farlo.
Non solo, a questa regola si aggiunge quella dettata dal più chiaro articolo 57 del medesimo Protocollo. Questo esplicita che nella fase precedente al lancio dell’attacco deve essere fatto il possibile per «ridurre al minimo il numero di morti e di feriti tra la popolazione civile» e «astenersi dal lanciare un attacco da cui ci si può attendere che provochi una combinazione tra perdite umane e danni che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto».
In sostanza, si prende atto della difficoltà di applicare in maniera perfetta il principio di distinzione, a causa del caos che la guerra stessa comporta. Tuttavia, deve essere comunque presente una volontà di ridurre la perdita di vite umane, partendo dal cercare di limitare anche il pericolo di tali perdite.
Luoghi civili con funzioni militari: cosa prevede il diritto umanitario
Lo stesso articolo prevede anche la situazione in cui in realtà si dimostri necessario attaccare delle zone con la presenza di civili. Infatti, non è difficile figurarsi una situazione in cui la distinzione tra civile e militare non sia così netta, ma pensiamo anche a tutte quelle strutture che vengono ridestinate a funzioni militari per urgenti necessità. Ecco, in tal caso la disciplina richiede che la popolazione civile eventualmente presente sia avvertita e che possa esserle data la possibilità di evacuare la zona.
Sono vari gli episodi in cui i russi non solo non hanno permesso in maniera attiva la fuga dei civili, ma ne hanno anche impedito in assoluto lo svolgimento.
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Attacchi indiscriminati e a strutture sanitarie vietati anche in guerra
Ancora più grave è il caso del presunto attacco al reparto maternità dell’ospedale di Mariupol. Le tutele finora citate, infatti, si fanno ancora più stringenti nel caso di strutture sanitarie, la cui immunità è inviolabile. Questi luoghi non possono essere utilizzati militarmente e la prevedibile giustificazione russa che vi fossero delle posizioni militari all’interno non regge e non ne può conseguire una scusante.
Corollario del principio di distinzione è il divieto di mettere in atto attacchi cosiddetti indiscriminati (art. 51 Protocollo I), soprattutto in zone popolate. L’utilizzo di alcune armi impedisce la possibilità di distinguere gli obiettivi; tra queste vi sono le bombe a grappolo (vietate da una Convenzione Onu del 2008).
Conoscendo la tipologia di effetto che queste provocano, la scelta stessa di utilizzarle non può che dimostrare di per sé una violazione del principio di distinzione e quindi una violazione del diritto internazionale umanitario.
Tribunali speciali internazionali contro l’impunità
Il diritto internazionale umanitario è un diritto relativamente nuovo e le sue violazioni risultano particolarmente complesse da perseguire. Sono difficili da dimostrare e comportano inevitabili conseguenze nei rapporti tra stati.
Tuttavia, ciò non deve essere un modo per evitare di assumersi la responsabilità di perseguire chi se ne macchia. Ed è proprio la comunità internazionale a essere investita della sfida di raccogliere, analizzare e tutelare ogni possibile prova attestante la violazione dei “Core Crimes”, così da consegnare alla giustizia i responsabili.
Pensare alle conseguenze legali non è un’utopia: tali crimini non sempre sono rimasti impuniti e giustizia è stata fatta. Come nel caso del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia – competente per le guerre nella ex Jugoslavia, la guerra del Kosovo e il conflitto in Macedonia – che ha portato a termine 83 condanne definitive.
Tra queste si contano quella del generale Stanislav Galić, condannato all’ergastolo per omicidio, azioni inumane e atti di violenza per creare terrore tra i civili; il comandante della polizia serbo-bosniaca Stojan Župljanin accusato, tra l’altro, della violazione delle Convenzioni di Ginevra sulle leggi e le usanze della guerra; l’ufficiale Ćorić, accusato di distruzione non giustificata dalla necessità militare e attacchi verso la popolazione civile. Il diritto in guerra esiste e il fatto che non venga sempre applicato non deve far credere il contrario.
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Corte penale internazionale e possibili scenari futuri
Nel caso della guerra in Ucraina la sfida non è facile, a partire dalla scelta dell’organo competente. Né Russia né Ucraina, infatti, sono Stati parte della Corte penale internazionale, a cui si pensa come prima opzione; tuttavia, la Corte non è l’unica strada percorribile.
Inoltre, se si pensa al recente passato, la Russia aveva già utilizzato in Cecenia e ad Aleppo la strategia di colpire obiettivi civili indiscriminatamente per piegare la resistenza delle città assediate, senza però pagarne le conseguenze.
Va fatto notare, però, che la tipologia di conflitto davanti al quale ci troviamo davanti oggi è diversa dalla guerra in Siria: in quel caso non si trattava di uno scontro tra due potenze iniziato con un’invasione, ma di un conflitto non internazionale con il coinvolgimento di vari attori esteri (tra i quali, appunto, la Russia). In secondo luogo, il fatto che alcuni crimini non sono stati perseguiti in passato, non può bastare per affermare con certezza che non lo saranno neppure in futuro.