India: libertà d’informazione in crisi sotto la guida di Narendra Modi
L'arresto del giornalista Fahad Shah In Kashmir ai sensi della legge anti-terrorismo riaccende le luci sulla repressione e il tentativo di silenziare le voci critiche in India. Ecco qual è lo stato della libertà d'informazione e di espressione nel Paese guidato dal premier Narendra Modi
Fahad Shah è il fondatore e caporedattore del popolare sito di notizie The Kashmir Walla, una testata indipendente che gode di ampio seguito nel territorio conteso del Kashmir: Shah – che collabora anche con le maggiori testate internazionali – è stato spesso preso di mira dalle autorità, insieme al suo team, per il suo lavoro. È stato arrestato nella sera del 4 febbraio nel distretto meridionale di Pulwama, nel Kashmir indiano.
Le accuse a suo carico sono di supporto al terrorismo, diffusione di notizie false e sedizione dopo che lo scorso febbraio aveva coperto per il suo giornale uno scontro a fuoco in cui erano rimaste uccise quattro persone, tra cui un ragazzo, che secondo la polizia era un militante separatista.
La famiglia del ragazzo, Inayat Ahmad Mir, aveva protestato e invocato la restituzione del corpo, sostenendo che fosse un innocente civile rimasto ucciso nel fuoco incrociato.
Libertà d’informazione e legge anti-terrorismo in India
Fahad Shah è stato tratto in arresto per 10 giorni ai sensi della Unlawful Activities Prevention Act (Uapa), la legge sulla prevenzione delle attività illegali – ossia la norma anti-terrorismo indiana, sempre più usata e abusata dalle autorità per silenziare il dissenso – e dell’arcaica legge sulla sedizione. Entrambe le norme sono sempre più spesso tirate in ballo per prendere di mira difensori dei diritti, giornalisti e voci critiche.
Se condannato, si legge nel comunicato stampa diffuso dal suo stesso giornale, Shah rischia il carcere a vita. L’Uapa permette inoltre la detenzione preventiva senza prove fino a sei mesi ed è molto difficile ottenere il rilascio su cauzione. Il suo crimine è quello di aver provato a scoprire la verità in un luogo dove la verità viene troppo spesso manipolata, distorta e aggiustata per servire la narrativa propagata da New Delhi.
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Le reazioni all’arresto del giornalista: «Modi cerca di spaventare i media»
La notizia dell’arresto di Fahad ha suscitato enorme indignazione sia in Kashmir che all’estero. Il Comitato per la protezione dei giornalisti ha definito l’arresto come un’«assoluta inosservanza della libertà di stampa e del diritto fondamentale dei giornalisti ad esprimersi liberamente e in sicurezza», mentre l’International Press Institute, un consorzio di editori e giornalisti di tutto il mondo, ha chiesto il «rilascio immediato di Fahad».
«L’arresto di Fahad Shah è solo l’ultimo tentativo del governo indiano di spaventare i media per aver svolto il proprio lavoro e aver denunciato violazioni», ha affermato Meenakshi Ganguly, direttrice per l’Asia meridionale di Human Rights Watch (Hrw). «Invece di garantire giustizia per le violazioni commesse dalle forze di sicurezza in Kashmir, il governo è più interessato a mettere a tacere coloro che portano alla luce questi abusi».
In India è guerra alla libera informazione
Non è la prima volta che Fahad Shah finisce sotto l’occhio vigile delle autorità per il suo lavoro: un giornalismo dal basso, che chiede conto al potere delle sue azioni e lotta per portare a galla la verità. Ma Shah non è l’unico giornalista finito nel mirino di una lotta senza quartiere alla libera informazione nella Valle del Kashmir.
Minacce, intimidazioni e procedimenti giudiziari nei confronti di giornalisti e attivisti per i diritti umani in Kashmir sono sempre più frequenti da quando il governo indiano ha intensificato la repressione dopo aver revocato lo statuto speciale dell’unico stato a maggioranza musulmana d’India nell’agosto 2019 e averlo diviso in due territori governati a livello federale. La lista dei giornalisti interrogati, arrestati e minacciati è lunga.
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Le nuove regole sui media in Kashmir
Nel gennaio 2020, sei mesi dopo l’annessione di fatto del territorio del Kashmir, il governo ha annunciato nuove regole sui media per il territorio, dando alle autorità maggiori poteri di censura sulle notizie che escono dalla regione.
Già dal 2019, però, i giornalisti che si occupano di Kashmir – anche sui media nazionali e internazionali – sono stati regolarmente interrogati dalla polizia per il loro lavoro e i loro post sui social media, sono stati minacciati di essere arrestati se il loro lavoro criticava le autorità e sottoposti a forti pressioni per autocensurarsi.
Lo scorso giugno, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione e il gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria si sono detti preoccupati per le numerose «presunte detenzioni arbitrarie e intimidazioni di giornalisti che si occupano della situazione in Jammu e Kashmir», un territorio al centro dell’annosa disputa tra India e Pakistan.
Lo stato della libertà di stampa in India
Quello che emerge dal Kashmir è un modello comune, diffuso, che si riscontra in tutta l’India, e fa da cartina al tornasole dello stato della libera informazione nel Paese e della libertà di espressione sotto l’amministrazione del premier Narendra Modi.
L’India è al 142esimo posto (su 180) nell’ultimo indice sulla libertà di stampa stilato da Reporter senza frontiere (Rsf). Una posizione che riflette la tendenza in corso negli ultimi anni nel Paese, che ha sempre vantato una stampa libera e ricca di una pluralità di voci. Oggi chi si distanzia dalla narrativa di regime viene preso di mira, perseguitato, arrestato o, peggio, ucciso.
«Con quattro giornalisti uccisi in relazione al loro lavoro nel 2020 (e altrettanti nel 2021, ndr), l’India è uno dei paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti che cercano di svolgere correttamente il proprio lavoro», secondo Rsf. «Sono esposti a ogni tipo di attacco, compresa la violenza della polizia, imboscate di attivisti politici e rappresaglie istigate da gruppi criminali o funzionari locali corrotti».
«Dalle elezioni della primavera del 2019, vinte in modo schiacciante dal Bharatiya Janata Party del primo ministro Narendra Modi, la pressione sui media è aumentata per aderire alla linea del governo nazionalista hindu», sostiene Rsf, che punta il dito contro l’Hindutva, l’ideologia che anima la destra hindu che mira a fare della democrazia indiana, plurale e secolare, una nazione etnica hindu, dai tratti sempre più simili a una dittatura (leggi anche India: musulmani a rischio genocidio).
Minacce, arresti e intidimidazioni verso i giornalisti indiani
Dal report stilato da Watch The State, un gruppo di ricerca creato dall’organizzazione giornalistica The Polis Project per documentare i casi di violenza di stato nel Paese, emerge che tra maggio 2019 e agosto 2021 in India sono stati registrati 256 episodi di violenza contro giornalisti e giornaliste nello svolgimento del loro lavoro. Si va da intimidazioni a pestaggi, fino all’incarcerazione preventiva per sedizione, attività terroristica o anti-nazionale.
Il documento dimostra come i giornalisti siano regolarmente minacciati, intimiditi, arrestati e messi a tacere attraverso accuse montate ad arte dalle autorità. Coloro che si esprimono contro la linea dell’attuale governo corrono il rischio di essere accusati e arrestati in base a leggi draconiane.
Violenza di Stato contro le voci critiche
The Polis Project ha mappato i casi di violenza contro attivisti e giornalisti: dal blackout sulle comunicazioni e la repressione in Kashmir all’indomani dell’annessione di Delhi, alla repressione delle proteste pacifiche contro l’emendamento alla legge sulla cittadinanza (leggi anche India, proteste e scontri sulla legge anti-musulmani: 6 morti, centinaia di feriti), dal pogrom di Delhi nel febbraio del 2020 (leggi anche India: Delhi, musulmani travolti dalla violenza hindu), ai giornalisti che coprivano il disastro umanitario della seconda ondata di Covid-19 nel Paese, fino alle proteste contro la riforma agraria in India.
Diverse sono le leggi usate dalle autorità per reprimere il dissenso e silenziare le voci critiche: come quella sulle attività illegali o Uapa (che permette di designare unilateralmente un individuo come terrorista senza la necessità di fornire prove), la legge sulla sicurezza nazionale e quella sulla pubblica sicurezza (Psa).
Negli ultimi 7 anni, ai sensi della Uapa, in India sono state arrestate 10.552 persone, di cui solo 253 condannate. Una tendenza sempre più marcata che mal si addice a quella che amava essere definita “la più grande democrazia al mondo”.