Rotta balcanica: migranti bloccati tra Bosnia e Croazia alle porte dell’inverno
A Velika Kladusa la polizia ha dato fuoco alle tende di un campo informale. Così centinaia di migranti vivono in alloggi di fortuna in attesa di poter partire per raggiungere l’Unione europea prima dell’inverno
da Velika Kladusa (Bosnia Erzegovina)
«Per due volte la polizia è arrivata e ha dato fuoco a tutte le tende. Questa qui era la mia. Ora andrò a nel bosco, metterò della plastica per terra e dormirò dentro al sacco a pelo. Ogni giorno mangio di meno. È molto dura la situazione per i migranti».
Mohammed è fuggito dall’Iran ed è in viaggio verso l’Europa da quattro anni. È di religione cristiana e dice che compirà 25 anni il prossimo maggio, ma il suo sguardo triste rende il suo volto antico. Cammina senza meta in attesa che la batteria del cellulare si carichi in un negozio poco lontano. Indica un punto accanto a un albero, in cui si distingue nettamente il perimetro di quello che per qualche tempo è stato il suo rifugio e ora non è altro che è un mucchio di braci annerite, vestiti abbandonati e plastica sciolta.
Velika Kladusa è una cittadina del nord della Bosnia Erzegovina, cantone di Una-Sana. Un luogo talmente vicino alla Croazia che basta spingersi al limitare del centro abitato per poter vedere chiaramente la dogana e il flusso di persone che può scorrervi grazie al solo possesso di un documento.
Su queste strade, parallelamente alla quotidianità degli abitanti locali, scorre la vita dei migranti in cammino lungo la rotta balcanica. Sono bloccati in Bosnia in attesa di riuscire a raggiungere l’Unione europea. L’unico modo per farcela è intraprendere il game, l’attraversamento di confine, cercando di evitare di essere catturati e respinti dalla polizia croata, celebre per la violenza e le umiliazioni che infligge a chi cattura nei boschi.
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Il luogo in cui si trova Mohammed è oggi conosciuto come helicopter place, uno spazio aperto che ricorda una palude ma che a periodi si trasforma spontaneamente in un campo informale in cui confluiscono le persone in transito. Intere famiglie, uomini soli e minori non accompagnati disposti a vivere in mezzo al fango, riparati solo da rifugi precari fatti di pezzi di legno e teli di plastica, tende piantate nel migliore dei casi, senza servizi igienici né energia elettrica pur di restare liberi, vicini al confine e avere la possibilità di partire presto per il game. L’alternativa è accedere – o meglio, essere portati – ai campi istituzionali, più controllati e lontani dal confine come quello di Lipa, a circa 25km dalla città di Bihac.
Fino a poco più di un mese fa l’helicopter place era abitato da circa 300 persone tra cui decine di famiglie con bambini piccolissimi. Una distesa di terra trasformatasi in una città nella città, animata da una quotidianità basata sul mutuo aiuto e la collaborazione. Poi, il 29 ottobre sono arrivate le ruspe che hanno spazzato via tutto. Delle persone presenti molte sono state portate a forza dalla polizia nei campi di Bihac, a circa un’ora di distanza, mentre altre sono fuggite nascondendosi nei boschi circostanti.
A circa un mese di distanza l’helicopter, reduce da altri tentativi di ricostituzione, è tornato vuoto. Le tende vengono date alle fiamme per intimidire i migranti ed evitare che riprendano ad abitare quel luogo, togliendo loro altre possibilità e spingendoli quindi a dirigersi verso i campi ufficiali. Così, dove prima c’erano i rifugi di fortuna, ma pur sempre rifugi, ora ci sono solo cenere e rifiuti. I cani randagi con i loro cuccioli si stringono attorno alle braci di vecchi fuochi accesi da persone costrette ad andarsene. A terra i segni dei bulldozer che hanno fatto piazza pulita. Di nuovo.
«Ho provato tre o quattro volte a entrare nel campo qui a Velika Kladusa che è per uomini singoli, perché non so dove andare né come mangiare», continua Mohammed. «Mi hanno detto di andare a Lipa, che qui non possono registrarmi perché non hanno più posto, ma io so che non è così. Non so perché siano tutti così cattivi con me».
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Fonti locali confermano che dopo gli sgomberi e l’arrivo del freddo sono rimaste fuori dalle strutture circa 300 persone attorno a Bihac e 400 a Velika Kladusa. Solo nel cantone Una-Sana si conta un totale di circa 800 persone fuori dai campi, che significa nascosti in vecchie case, al freddo nel bosco o all’interno di edifici abbandonati.
E nemmeno queste strutture si salvano dagli sgomberi coatti. Sulle pareti di alcuni resta il segno nero delle fiamme appiccate all’interno e passate da porte e finestre, a terra restano sparpagliati i segni della vita dei migranti. Abiti, giocattoli, oggetti personali che nessuno tornerà a prendere.
Gran parte delle persone proviene dall’Afghanistan, ma anche da altri paesi come Iran e Pakistan e Nepal. Il grande scoglio e la grande preoccupazione ora è l’attraversamento di Croazia e Slovenia, Trieste e l’Italia rimangono un sogno lontano. Mohammed ci è arrivato vicino, era in Slovenia quando è stato respinto nuovamente in Croazia e poi di nuovo in Bosnia, appena fuori dall’Ue.
Le destinazioni sono soprattutto nel nord Europa come Francia, Germania, Inghilterra. Luoghi in cui molti hanno parenti che li attendono per ricostruire la propria vita dopo un viaggio durato anni. Luoghi da cui li separano ancora troppi confini.
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A Velika Kladusa al momento l’aiuto viene soprattutto da volontari e organizzazioni, locali e non, che si occupano di fornire beni di prima necessità come giacconi, coperte, scarpe, calzini, cibo, la possibilità di farsi una doccia e caricare cellulari e powerbank.
Quasi tutti sono stati vittime di respingimenti da parte della polizia croata, sul corpo portano i segni delle violenze subite. Percosse, umiliazioni e deportazioni sono all’ordine del giorno. Soprattutto se un uomo viaggia da solo, le probabilità di essere picchiato e spogliato di tutti i possedimenti sono altissime.
In fondo a una collina un gruppo di ragazzi che sono stati respinti nella notte raggiunge il furgone di un’associazione. Non mangiano da giorni, sono stremati, eppure sono tra quelli “fortunati”: la polizia ha preso loro soltanto soldi e telefoni, lasciando zaini, abiti e scarpe fradice. Si fermano qualche minuto accanto al furgone, si cambiano in fretta, calzini, una giacca asciutta, scarpe del numero giusto, ringraziano e ripartono.
Per le famiglie, soprattutto con bambini piccoli, è più difficile concepire di partire e trascorrere le notti di fine novembre nel freddo dei boschi con il rischio di essere catturati e riportati indietro nel buio all’interno di un furgone. Dominano la paura, l’infanzia rubata e trascorsa lontano da casa, da amicizie e dall’istruzione, c’è il bisogno di rifugiarsi in pensieri lontani, c’è la necessità di crescere prima del tempo, c’è il sapere cosa significa dormire in un bosco invece di scegliere le decorazioni per la propria cameretta. D’altronde, non c’è scelta. Perché tornare indietro non è possibile. Rimanere nemmeno. «In tutti i Paesi in cui sono stato come rifugiato è andata male. Non so davvero quale sia il posto migliore per me».