Strage di Mineo, sei operai morti nel 2008: il passo (troppo) lento della giustizia
Ci sono voluti 12 anni e mezzo per arrivare a delle sentenze di condanna per la strage di Mineo (Catania), in cui persero la vita sei persone. E per ottenere i risarcimenti in sede civile ci vorrà ancora molta pazienza
In queste settimane si parla molto di infortuni e di morti sul lavoro, uno stillicidio quotidiano. Ma quando i riflettori si spengono, quando i nomi e i volti delle vittime scompaiono da telegiornali e quotidiani, che cosa succede? Come procedono inchieste e accertamenti? Viene fatta giustizia? Arriva prima la prescizione?
I familiari dei sei operai morti nella strage di Mineo (Catania), una delle più gravi degli ultimi decenni, hanno dovuto aspettare quasi 12 anni e mezzo per veder terminare l’iter processuale penale, suggellato dal verdetto bis della Cassazione. L’ultima sentenza è stata emessa dalla suprema corte il 20 novembre 2020 e depositata il 13 ottobre 2021. Per ottenere i risarcimenti pieni, in sede civile, la strada da percorrere è ancora lunga e irta di ostacoli.
Strage di Mineo: l’intervento al depuratore e l’incidente mortale
L’11 giugno 2008 due squadre di lavoratori, due addetti della ditta privata “Carfì servizi ecologici” di Ragusa, e quattro dipendenti pubblici, morirono nell’impianto comunale per la gestione e la depurazione dei reflui urbani di Mineo, in provincia di Catania. Non erano stati formati per le attività da svolgere quel giorno. Non avevano maschere né autorespiratori e non indossavano imbracature collegate a cavi, per consentire il recupero in caso di malori. Mancava la segnaletica sulle precauzioni da prendere.
I sei corpi inanimati vennero trovati nel pozzetto di ricircolo dei fanghi, ammorbato da esalazioni letali. Salvatore Tumino di 47 anni e il coetaneo Giuseppe Smecca, dipendenti dell’azienda esterna, furono i primi a rimetterci la vita, avvelenati dall’acido solfidrico. Non sopravvissero nemmeno Giuseppe Zaccaria di 47 anni, Giovanni Natale Sofia di 37 anni, Giuseppe Palermo di 57 anni e Salvatore Pulici di 37 anni, gli operatori comunali scesi in aiuto dei colleghi, mentre il locale-trappola si riempiva di fanghi.
L’allarme partì troppo tardi. La mamma di Giovanni andò all’ufficio tecnico del comune – scrisse il Corriere della Sera – a metà pomeriggio, con il presentimento del peggio. Suo figlio non era tornato a casa per pranzo e non aveva avvertito del ritardo. Avvisava sempre. Bisognava preoccuparsi e qualcuno doveva correre a controllare.
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Morti sul lavoro: reazioni indignate e promesse non mantenute
Il premier Silvio Berlusconi spedì a Mineo il ministro del Lavoro e dichiarò: «Alle famiglie vanno la vicinanza e anche l’aiuto concreto mio personale e del governo». «Basta con le stragi sul lavoro», tuonò il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni incalzò: «Tutto il Paese deve ribellarsi a questo andazzo».
Solo la Regione, attraverso le Ausl, mantenne le promesse e quasi subito. L’azienda sanitaria di Ragusa ha assunto la vedova di uno dei sei operati deceduti e la figlia di un altro. L’Inail ha dato corso al pagamento di quanto dovuto ai familiari delle vittime.
Strage di Mineo tra processi e condanna definitiva
L’andazzo è continuato, con migliaia di infortuni mortali sul lavoro. L’inchiesta sulla strage di Mineo ha portato a tre gradi di giudizio, con un doppio passaggio in appello e un doppio giro in Cassazione. L’allora sindaco del paese, un assessore comunale e il responsabile sicurezza delle ditta esterna, tre degli otto indagati iniziali, sono usciti di scena senza conseguenze (con un’assoluzione, un’archiviazione e una condanna annullata).
Dopo quasi 12 anni e mezzo di attesa, più circa 11 mesi per il deposito della sentenza finale, sono arrivate le condanne definitive per l’assessore al Servizio idrico integrato, Giuseppe Salvatore Mirata (tre anni di reclusione), per i dirigenti comunali Marcello Zampino (due anni) e Antonio Catalano (due anni), per il titolare dell’azienda privata Salvatore Carfì (tre anni e tre mesi) e per il suo capocantiere, Salvatore La Cognata (tre anni e tre mesi).
I cinque sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo plurimo. Altre accuse, per le violazioni alle norme in materia di sicurezza sul lavoro e alle direttive su rifiuti speciali e sversamenti di fanghi, con il trascorrere degli anni e dei processi si sono estinte per prescrizione. Per i sette operai morti alle acciaierie Thyssen di Torino, per forzare un paragone con un’altra stage, le condanne oscillano tra sei anni e tre mesi e nove anni e otto mesi.
Pene sospese e possibilità di misure alternative
In carcere non c’è nessuno. «Antonio Catalano e Marcello Zampino – rammenta l’avvocato dei due dirigenti comunali, Massimo Alì – hanno avuto la sospensione condizionale della pena e quindi sono rimasti in libertà». «L’ex assessore Mirata – spiega la penalista che lo assiste, Rita Carmela Carambia – ha presentato istanza per scontare la condanna in affidamento in prova ai servizi sociali, conciliando l’attività di medico di base con le prescrizioni che verranno date».
«Anche per Carfì e per La Cognata – dice il loro difensore, Gianluca Gulino – l’entità delle condanne definitive è stata tale da consentire la richiesta di misure alternative alla detenzione». Per tutti e tre a decidere sarà la magistratura di sorveglianza.
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Aspetti tecnici complessi e tempi dilatati
Commenta l’avvocatessa Carambia: «Io lo chiamo il processo infinito. Si sono tenute molte udienze dibattimentali, necessarie: c’erano tantissime questioni tecniche complesse da esaminare e parecchi consulenti da sentire».
Giuseppe Antonio Bellanca, uno dei legali dei familiari delle vittime, concorda: «Gli aspetti tecnici da vagliare non erano semplici, vista la particolarità del sito e dei materiali trattati. Gli imputati hanno esercitato i loro diritti, con i ricorsi, e i tempi si sono dilatati. Ma non è ancora finita. Chi è rimasto dovrà affrontare altre lunghe battaglie per i risarcimenti pieni».
Processo per la strage di Mineo: difficile avere i risarcimenti
Le sentenze penali hanno fissato le provvisionali da liquidare alle famiglie, cioè gli anticipi dei risarcimenti. Recuperare i primi soldi dal Comune di Mineo, responsabile civile, è stata un’impresa titanica e non per tutti efficace. L’avvocato Sergio Raciti, a fianco di alcuni parenti, rende noto:
«Farsi pagare almeno la provvisionale è stato faticosissimo. Con l’amministrazione di Mineo abbiamo infine chiuso una transazione. Ma siamo solo all’inizio. Ora che la Cassazione ha depositato le motivazioni avvieremo le cause civili per l’intera quantificazione dei danni. Questo porterà via tempo, altro tempo».
I familiari seguiti dall’avvocato Bellanca sono un passo indietro, loro ancora lontani dall’obiettivo minimo. «Abbiamo dovuto chiedere il pignoramento dei crediti del Comune, finanziariamente sull’orlo del default. A noi non è stato pagato un euro».
Il depuratore della strage non è in funzione
Il depuratore costato sei vite e una montagna soldi pubblici, messo temporaneamente sotto sigilli e poi dissequestrato, non è in funzione. Aveva problemi già da prima della strage. Lo ricordano gli avvocati delle famiglie, lo sottolinea la sentenza di Cassazione del 2016.
«La fase di smaltimento dei fanghi – raccontata in sintesi – era una tra le più onerose, non era mai stata volutamente avviata e aveva compromesso l’intero funzionamento dell’impianto. Il criterio di economicità, l’unico al quale il comune di Mineo si era attenuto, senza tenere conto di quelli dell’efficacia e dell’efficienza, si rivelò essere del tutto fallace. I quantitativi di fango prodotti quotidianamente si erano via via accumulati sul fondo dei due sedimentatori e dei due digestori, portando il sistema ad una situazione critica. Fin quando si riusciva ad accumulare il fango, l’impianto aveva retto. Poi il fango era fuoriuscito. L’alta densità raggiunta, e la presenza di corpi solidi, aveva provocato l’occlusione di una tubazione», cosa che aveva messo in moto l’intervento del personale dell’impresa Carfì e dei dipendenti comunali.
Scelte sbagliate e responsabilità politiche
«Un depuratore di quelle dimensioni non aveva alcun senso, non per un piccolo paese come Mineo. Era ed è una cattedrale del deserto, si è portato via sei vite e risorse finanziarie notevoli. I processi hanno dimostrato le responsabilità penali per la strage. La responsabilità politica non se l’è presa nessuno», osserva l’avvocato Raciti.
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