I centri di permanenza per il rimpatrio sono «i buchi neri del nostro Paese»
Ecco lo stato (pessimo) in cui si trovano i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di immigrati irregolari o clandestini. Sono il cuore di tenebra del nostro Paese. «Buchi neri», il chiama il nuovo report di Cild, ricordando che per gli internati si tratta di «detenzione senza reato»
Hossain Faisal, Aymen Mekni, Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, Moussa Balde, Ad Harry. Nei Centri di permanenza per il rimpatrio in Italia, 10 strutture per 1.300 posti di capienza a pieno regime, in meno di 2 anni hanno perso la vita sei giovani stranieri.
Le cause dei decessi sono state diverse: suicidi, overdose di metadone, malori, soccorsi non tempestivi. Ma il dato comune non cambia. Chi li aveva sotto la propria responsabilità – lo Stato, attraverso i gestori privati – non ha impedito che succedesse. A questi uomini inghiottiti per sempre dai «buchi neri» è dedicato il primo rapporto-denuncia stilato e reso pubblico da Cild, la Coalizione Italiana per le libertà e diritti civili, rete di 43 organizzazioni della società civile schierate a fianco di ultimi ed emarginati. Il più giovane dei morti era solo un ragazzo, 20 anni appena. Il più vecchio si è fermato a 38 anni.
Centri di permanenza temporanea in Italia: dove sono e qual è la situazione
Per gestire i Cpr sotto esame – dislocati a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago – tra il 2018 e quest’anno sono stati spesi quasi 44 milioni di euro, Iva esclusa (per la precisione 43.964.512 euro). Alla somma, per avere contezza dei conti esatti, andrebbero aggiunti i costi di manutenzione e quelli per il personale di polizia.
La spesa media giornaliera è calcolata in 40.150 euro, a fronte di una presenza quotidiana sotto le 400 persone. Metà delle donne e degli uomini internati – è uno dei tasti dolenti cui battono i curatori del rapporto, coordinati da Federica Borlizzi e Gennaro Santoro – sono stati privati della libertà sebbene non vi fosse alcuna prospettiva concreta di riuscire a riportarli negli Stati d’origine, il fine per cui queste strutture esistono e bruciano risorse e diritti. «Un fallimento non solo dello scopo per il quale sono stati creati, ma anche un fallimento nell’utilizzo delle risorse pubbliche».
Leggi anche:
• Giornata internazionale dei migranti: in fuga ai tempi del Covid-19
• Ventimiglia: migranti, i dimenticati della pandemia
• Hotspot migranti, Garante detenuti: «Violati diritti persone straniere»

Cpr, il business della detenzione amministrativa
«La detenzione amministrativa – denunciano sempre gli autori del dossier – è divenuta una filiera molto remunerativa e attrattiva. Da un lato si registra una continua spinta alla minimizzazione dei costi, dall’altro si rileva la ricerca della massimizzazione del profitto da parte delle imprese e delle cooperative cui vengono assegnati gli appalti per la gestione. Negli ultimi anni – precisano – alle cooperative sociali si sono progressivamente affiancate le multinazionali, quelle che in tutta Europa gestiscono centri di trattenimento o servizi all’interno di strutture penitenziarie».
I riferimenti sono espliciti: Gepsa Italia e Ors Italia. La prima manda avanti il Cpr di Torino e ha come società madre Engie Italia, a sua volta ricompresa in Engie Francia, colosso dell’energia e della mobilità sostenibile, che nel 2020 ha fatturato quasi 60 miliardi e che fornisce servizi ausiliari in 22 penitenziari d’Oltralpe. Il Gruppo Ors, cui fa capo la divisione italiana con in carico il Centro di Macomer (Nuoro, Sardegna), ha sede a Zurigo e opera nel settore migranti in quattro Stati europei: Germania e Austria, oltre a Italia e Svizzera.
Cosa sono i Centri di permanenza per il rimpatrio e come sono organizzati
I Cpr sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (art. 14, D.Lgs. 286/1998). La gestione materiale dei Centri di permanenza per i rimpatri non è garantita direttamente dallo Stato, che si occupa delle pratiche giudiziarie e della sicurezza. Attraverso le prefetture viene affidata a soggetti terzi, con gare d’appalto basate sul criterio della scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con i rischi di ricadute sulla quantità e la qualità dei servizi erogati, disciplinati da capitolati d’appalto.
Nelle situazioni ritenute urgenti, come è avvenuto per Palazzo San Gervasio, si ripiega sulla procedura negoziata. Il risultato? Molti Cpr – è il leitmotiv del dossier, declinato su più fronti – non rispettano nemmeno gli standard dettati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
Gli esempi portati dai ricercatori Cild, e documentati, si sprecano. La mala gestione è oggetto di inchieste penali, come per Gradisca e a Bari (affidati alla cooperativa Ekene ex Edeco e dalla Badia Grande, concessionaria anche di Trapani). Ovunque la compressione dei costi ha portato a una riduzione del personale, con carenze diventate strutturali in svariate strutture e derive patologiche in alcuni Centri.
Assistenza medica tagliata, psicofarmaci in abbondanza
I tagli via via imposti non hanno risparmiato l’assistenza sanitaria, con un drastico calo delle ore di copertura dei servizi medici, infermieristici e di supporto psicologico. In compenso psicofarmaci e ansiolitici sono dispensati come caramelle, anche dove l’assistenza psichiatrica non è garantita.
E non è sempre garantita neppure la riservatezza delle visite, che potrebbero e dovrebbero essere l’occasione per portare alla luce eventuali maltrattamenti e abusi: la presenza di personale delle forze di polizia, durante i colloqui con i dottori e gli accertamenti sanitari, è stata riscontrata in modo molto frequente.
Non solo. L’inchiesta evidenzia la mancanza di personale sanitario adeguatamente formato in materia di medicina delle migrazioni e la totale assenza di protocolli o interventi di prevenzione dei rischi, nonostante i numerosi episodi di autolesionismo.
Leggi anche:
• Morti sul lavoro: la strage senza fine nelle statistiche Inail
• «Chico Forti torna in Italia», ma dopo otto mesi non c’è ancora una data

Milano, Torino, Gradisca: carenze strutturali diffuse nei Cpr
Anche l’elenco delle criticità di locali e ambienti è lunghissimo e assortito. Nelle stanze di pernottamento di alcuni Centri le finestre non hanno schermature per filtrare i raggi del sole, in altri Cpr mancano persino i vetri.
In metà delle strutture i trattenuti non possono accendere o spegnere la luce, non sempre esistono campanelli per dare l’allarme e chiedere aiuto in caso di malori o di situazioni pericolose. I bagni sono in genere in condizioni igieniche pietose, a volte privi di porte e di privacy o con la temperatura dell’acqua delle docce non regolabile dagli utilizzatori.
Non va meglio per quanto riguarda l’alimentazione. A Torino e a Gradisca il cibo non è differenziato in base ai dettami religiosi o alle esigenze di salute. La qualità del pasti è ritenuta scarsa dai migranti trattenuti. A Milano l’autorità sanitaria ha riscontrato svariate carenze e irregolarità.
Pochi spazi per pratiche religiose e socialità
Nella maggior parte dei Cpr non sono stati realizzati campetti da calcio o biblioteche e spazi adibiti al culto e non sono state attivate iniziative ricreative e culturali né convenzioni con associazioni della società civile disponibili a promuovere progetti mirati.
«Ciò rende tali strutture “involucri vuoti”, in cui le persone perdono la propria identità per essere ridotte a corpi da trattenere e confinare».
Le riprove sono anche negli ostacoli che le donne e gli uomini rinchiusi incontrano per comunicare telefonicamente con familiari e parenti, nella difficoltà ad esercitare il diritto di informazione e il diritto di difesa, in piccoli e grandi problemi quotidiani.
Minorenni nei Centri di permanenza per il rimpatrio
I minori sono un caso nel caso. «Non vengono collocati in strutture dedicate durante l’identificazione e l’accertamento dell’età e continuano invece a essere trattenuti nei Cpr per l’espletamento delle procedure». Solo dal centro di Roma-Ponte Galeria, l’unico per cui esistono dati ufficiali, nel 2020 risultano dimessi 19 ragazzi.
Per un numero considerevole di giorni, 27 per uno di loro, gli under 18 sono stati rinchiusi in un luogo non idoneo e «contro ogni legge». Discorso simile anche per i trattenimenti disposti durante la pandemia e i lockdown duri, considerati in maggioranza ingiustificati e illegittimi perché non c’era la possibilità di provvedere materialmente ai rimpatri.