Land grabbing in Mali: in lotta per la terra

La violenza tra agricoltori e pastori in Mali prosegue da 10 anni. Sullo sfondo il land grabbing, che aumenta la tensione togliendo a contadini e allevatori la terra per concederla a piantagioni e progetti minerari. Ecco l'esperienza di un’organizzazione che sta cercando di cambiare le cose. Rischiando molto

La regione centrale del Mali è una delle aree dell’Africa occidentale in cui, negli ultimi 10 anni, è aumentata la violenza tra agricoltori e pastori. Secondo il centro studi statunitense Africa Center for strategic studies, all’escalation dei conflitti hanno contribuito: la pressione sulla terra di una popolazione in crescita, il cambio di destinazione d’uso delle zone pastorali, le limitazioni d’accesso alle risorse, l’aumento delle disuguaglianze e la perdita di fiducia tra le diverse comunità.

In un paese come il Mali, spesso citato per la presenza di gruppi di militanti islamisti, le tensioni vengono cavalcate e alimentate da fattori politici, religiosi e culturali. Questo si traduce in attacchi, tensioni, conflitti ed espulsioni forzate. Come sottolinea il centro studi, i conflitti per l’accesso alle risorse si trasformano, spesso, in tensioni identitarie.

Accordi per le concessioni di terra in Mali

Un ruolo nel conflitto tra contadini e allevatori lo giocano anche gli accordi di concessione terriera. Si tratta di intese che prevedono l’installazione di piantagioni o lo sfruttamento di miniere. Il loro effetto è la riduzione dell’accesso ai campi per i contadini, ai pascoli per i pastori e all’acqua per entrambi.

Le terre utilizzate dagli allevatori nomadi sono ancor più vulnerabili, perché considerate poco o per nulla valorizzate dal punto di vista economico. Molte comunità pastorali utilizzano stagionalmente corridoi di transumanza e pascoli. L’uso discontinuo della risorsa, in molti casi, li esclude dalle decisioni, anche a livello comunitario.

In Mali le transazioni che hanno come oggetto la terra, registrate dalla piattaforma indipendente Land Matrix, sono 31. La maggior parte di esse si trova nelle aree più fertili del paese, lungo il corso del fiume Niger. Tre quarti degli accordi conclusi prevede la coltivazione. Riso, cotone e canna da zucchero necessitano di molta acqua. Il quarto restante, invece, è composto da progetti di estrazione mineraria, soprattutto oro.

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Fiume Niger – Foto: via Pixabay

Land grabbing in Mali: la lotta di Massa Koné

In questo contesto opera la Convergenza maliana contro gli accaparramenti di terra, composta da 5 organizzazioni e movimenti sociali. «Ci occupiamo delle vittime di accaparramento, delle espulsioni forzate, delle demolizioni di case: di tutte le malversazioni fondiarie emerse da accordi tra il governo e le imprese: in ambito minerario, urbanistico o agricolo», racconta a Osservatorio Diritti Massa Koné, portavoce dell’organizzazione.

Nel paese africano, come in larga parte dell’Africa subsahariana, la terra è proprietà dello Stato, che ha la facoltà di espropriarla e di destinarla a progetti di pubblica utilità. Se è vero che la terra, di fatto, è nelle mani dello Stato, è altrettanto vero che viene gestita, per la maggior parte, attraverso il diritto consuetudinario. Questa forma di diritto regola tutti gli aspetti: dall’accesso alla destinazione d’uso, dalla possibilità di ereditarla o di concederla. Grazie alla gestione consuetudinaria contadini e pastori, anche se non possiedono titoli o documenti formali, possono legittimamente coltivarla o utilizzarla come pascolo.

«Le leggi favoriscono l’accaparramento, permettono al governo di siglare accordi. La legislazione, infatti, dice che la terra appartiene allo Stato, che può prendere decisioni riguardo l’estrazione mineraria, la concessione di terre coltivabili o di foreste», sottolinea l’attivista maliano.

Contro l’accaparramento di terre: la lotta politica

In questo contesto, il rappresentante della Convergenza spiega quali sono le azioni realizzate per contrastare il fenomeno dell’accaparramento delle terre: «La nostra è una lotta non violenta, di resistenza. A livello comunitario sensibilizziamo sui rischi legati all’accaparramento, contattiamo le comunità potenzialmente minacciate: quelle che vivono in zone ricche di minerali o nelle pianure irrigue». E aggiunge: «Per le comunità già vittime di esproprio, invece, la priorità è ottenere giustizia e farle tornare in possesso dei loro territori».

Lo strumento utilizzato è quello politico, di pressione sul governo attraverso: mobilitazioni, sensibilizzazione, conferenze stampa, diffusione internazionale dei casi, contatti con le organizzazioni che si occupano dei diritti umani.

Grazie alle attività di lobbying e di sensibilizzazione, l’organizzazione maliana ha spinto il governo a creare una commissione interministeriale che partecipi a tavoli di dialogo e negoziazione sui singoli casi di land grabbing.

La strada del ricorso alla giustizia, invece, almeno al momento, è preclusa, come spiega Massa Koné: «Il legittimo diritto alla terra delle comunità non viene riconosciuto a livello formale. Non possiedono documenti e quindi non hanno speranze di vittoria in un tribunale».

Una legge per riconoscere le terre comunitarie in Mali

La Convergenza non si limita al sostegno puntuale alle comunità che lottano contro l’accaparramento delle terre, ma organizza anche mobilitazioni per ottenere riforme e cambi nelle politiche fondiarie. Grazie alle campagne e alle manifestazioni, nel 2017, il paese ha approvato una legge sulle terre agricole. Il testo rafforza il diritto consuetudinario e prevede documenti formali per le terre concesse dai capi tradizionali e l’assegnazione di terreni alle associazioni di donne. «Siamo riusciti a fare in modo che la legge riconoscesse le terre comunitarie», sottolinea l’attivista.

«La prossima fase è rendere concreto il riconoscimento del diritto delle comunità alla gestione delle risorse naturali e alla creazione di commissioni fondiarie di villaggio che possano produrre documenti sulle terre agricole».

La proposta della società civile è di creare commissioni fondiarie rappresentative di tutti i soggetti, compresi donne e giovani, spesso esclusi dall’accesso alla terra. «La commissione si occuperà della verifica sul campo e rilascerà un’attestazione di detenzione consuetudinaria, con la quale si potrà richiedere al comune un documento di possesso».

Il ruolo dei capi tradizionali nel land grabbing in Mali

Donne e giovani sono spesso esclusi dall’accesso alle risorse, anche nei sistemi consuetudinari tradizionali. Le autorità amministrative e i capi tradizionali, infatti, concedono la terra prevalentemente agli uomini.

La donna viene esclusa dalle decisioni riguardanti l’utilizzo dei terreni, il loro affitto o la loro cessione. Alla morte del marito, inoltre, le donne vengono spesso escluse dall’eredità e i terreni vanno alla famiglia del coniuge o ai figli della coppia. Come spiega Massa Koné: «I capi tradizionali sono diventati grandi speculatori fondiari e rifiutano di far accedere alla terra le donne e i giovani». Per questo l’organizzazione lavora sulla sensibilizzazione dei capi consuetudinari, che hanno un ruolo importante nella cessione dei campi.

«I capi tradizionali sono i nostri padri, vogliamo mostrare loro il pericolo di cedere le terre delle comunità in cambio delle briciole che promette il governo».

Le terre in Mali non sono solo una merce, sono fonte d’identità. «Se perdo la mia terra divento uno straniero per sempre. La nostra cultura è legata al terreno», aggiunge.

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Contadina in un campo di riso – Foto: Pixabay

Mali, proprietà collettiva contro privatizzazione

Il timore delle organizzazioni come quella di Massa Koné è che l’obiettivo di garantire a tutti l’accesso alla terra spinga verso la privatizzazione.

«La terra deve essere un bene comune, insieme all’acqua e ai semi. La terra collettiva è quella che ci tiene insieme. Se perdiamo questo aspetto solidale vinceranno le banche e i ricchi compreranno tutto. I singoli individui, infatti, potrebbero vendere la terra o impegnarla in banca. Per scongiurare questa prospettiva vogliamo vedere riconosciute le terre comunitarie».

Difendere i diritti delle comunità: un mestiere pericoloso

Massa Koné è tra gli attivisti monitorati dall’organizzazione irlandese Front Line Defenders, che tutela i difensori dei diritti umani.

«Sono sfuggito alla morte diverse volte, sono stato arrestato e torturato, ma non mi sono arreso», racconta.

Nel 2020 la famiglia dell’attivista ha subito un attacco violento da parte di uomini armati. Sono entrati in casa, hanno vandalizzato l’abitazione e minacciato con le armi la moglie, il fratello e i figli. «Misuro i rischi, dopo gli ultimi attacchi di un anno fa, mi muovo sempre con altre persone, lo stesso vale per la mia famiglia che non deve pagare le spese per la mia lotta. Devo stare attento a non fare errori perché ogni cosa può diventare una scusa per arrestarmi e sbattermi in prigione».

Massa Koné spiega quali sono le tecniche utilizzate dal governo e dalle imprese per mettere a tacere attivisti come lui. «Si rivolgono a milizie private o passano attraverso la polizia, tentano la carta della corruzione, creano dei dossier inconsistenti per arrestarti e usano la diffamazione a mezzo stampa per screditarti. Hanno tutti i mezzi per abbatterti: fisicamente e moralmente».

«Quello che ci fa andare avanti nella lotta sono le piccole vittorie: persone che possono dormire tranquille, che hanno la loro casa e che coltivano i loro campi», conclude.

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