Gender gap pensionistico, la rincorsa impossibile?

Aumenta il divario tra le pensioni medie percepite dalle donne e dagli uomini, in un contesto di calo generalizzato degli importi. Ecco gli ultimi dati di Inps e Istat e quali sono le cause di questa situazione

Si dilata il gender gap tra le pensioni, il divario che riflette la minore e più complicata partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, le differenze salariali, le discriminazioni e gli ostacoli nella carriera, storie contributive brevi e frammentate.

Le pensionate sono più numerose dei coetanei a riposo (8,8 contro 7,2), ma in media percepiscono cifre inferiori (salvo eccezioni). E all’ultima rilevazione risulta più profondo il solco tra gli importi destinati alle ex lavoratrici e quelli erogati agli ex lavoratori. Lo sanno le dirette interessate, anche se di questi temi poco si parla. Lo certificano le elaborazioni statistiche diffuse da Inps e Istat.

Gender gap pensionistico: i dati della differenza di genere

Nel 2020 l’ammontare medio delle nuove pensioni scattate durante l’anno (856.004) è stato di 1.243 euro al mese, con 1.033 euro a testa per le donne (470.181), 1.498 euro pro capite per gli uomini (385.823) e uno scarto di 465 euro (-31,0%, quasi un terzo in meno).

I numeri così sintetizzati si riferiscono alle pensioni di vecchiaia – compresi i prepensionamenti per il fondo pensione dei lavoratori dipendenti e gli assegni sociali – e alle pensioni anticipate, alle pensioni di invalidità e a quelle di reversibilità di tutte le gestioni.

Nel 2021 pensioni in ribasso, gap in crescita

Nel primo semestre 2021 il gender gap pensionistico è salito a 498 euro al mese e gli assegni sono diventati più leggeri, per tutte e tutti. L’importo tipo delle 389.924 nuove pensioni con decorrenza gennaio-giugno è di 1.155 euro, con 931 euro in media per le donne (215.124 le new entry), 1.429 per gli uomini (174.800 posizioni) e 498 euro di differenza (pari al – 34,8%, oltre un terzo in meno).

Le cause del divario tra pensioni di uomini e donne

Ricorda Olivia Bonardi, docente di Diritto del lavoro alla Statale di Milano: «Le pensioni femminili riflettono, in primo luogo, la discriminazione che le donne subiscono nel mondo del lavoro. Differenziali salariali, segregazione occupazionale e frammentazione delle carriere sono gli elementi principali che incidono sulle maggiori difficoltà di accesso al sistema pensionistico e sulle più basse prestazioni pensionistiche. Si intrecciano più variabili, legati ai percorsi lavorativi individuali e alle situazioni personali e familiari».

«Ci sono poi alcuni fattori – continua – insiti nel nostro sistema, che condizionano fortemente la fruizione delle pensioni e l’entità delle somme erogate. Non si tratta solo di aspetti connessi al riflesso della condizione lavorativa femminile, ma anche di elementi strutturali. Un esempio? Le tabelle con i coefficienti per calcolare la ricongiunzione dei contribuiti sono diverse per uomini e donne e risalgono a quasi 60 anni fa».

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gender gap e pensioni
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«Sottovalutato il lavoro domestico e di cura»

«Le attività domestiche – incalza Stefano De Iacobis, coordinatore del Dipartimento politiche previdenziali della Federazione nazionale pensionati della Cisl – gravano ancora in prevalenza sulle spalle femminili, nonostante qualcosa stia lentamente cambiando, e non sono sufficientemente considerate ai fini pensionistici. Resta alto, in una situazione aggravata dal Covid e dalle conseguenze sulla vita quotidiana, il numero di donne costrette a lasciare il lavoro perché diventano mamme o devono farsi carico di genitori anziani o di familiari disabili e dei figli».

«E anche quando l’anticipazione del momento di ritiro dal lavoro è liberamente scelta dalla lavoratrice, per la donna il costo non è irrilevante. Si paga in termini di decurtazione della pensione in applicazione del più basso coefficiente di trasformazione e in termini di mancata contribuzione futura», rimarca la professoressa Bonardi.

2021: 17,8 milioni di pensioni erogate

Al 1° gennaio 2021 risultano 9.947.894 pensioni erogate a donne e 7.851.755 a uomini, in percentuale 55,9 contro 44,1 (includendo chi percepisce più pensioni). L’età media dei pensionati è di 74,1 anni, con una differenza tra i due generi di 4,7 anni (71,5 anni per gli uomini e 76,2 anni per le donne).

Riguardo alle pensioni di vecchiaia, il 25,1% è pagato a under 70, tasso che sale al 27,8% per gli uomini.

Il 68,7% dei titolari di pensioni di invalidità previdenziale ha meno di 70 anni, mentre le pensionate della stessa categoria sono per il 47,0% ultra 80enni.

Anche per l’invalidità civile i fruitori maschi si trovano soprattutto nelle prime classi di età. Il 53,7% dei titolari è under 60, la percentuale crolla al 31,8% per le coetanee. Le donne invece presentano una concentrazione molto alta nelle età avanzate (45,4% per le over 80).

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Gender gap e pensioni: il solco di genere, categoria per categoria

Nel 2019 la spesa pensionistica complessiva è stata di 301 miliardi di euro (+2,5% rispetto al 2018). Gran parte (273 miliardi, 90,6% del totale, 15% del Pil) è servita per pagare le pensioni Ivs (invalidità, vecchiaia e superstiti).

Tra queste, più di due terzi (67,4%) risultano essere pensioni di vecchiaia e anzianità, che assorbono il 79,2% delle risorse. Il gap per le due voci (sempre nel 2019) è del 36,1%, pari a 7.783 euro l’anno in meno per le donne (13.753 euro contro 21.536 per gli uomini).

Ancora più pesante il solco tra le pensioni di guerra, più che dimezzate dal genere (-50,7%, cioè 5.766 euro in meno): 5.616 euro annui per le destinatarie, 11.382 per i destinatari.

“Sorpasso” solo per le pensioni di reversibilità

Per effetto del divario di genere in relazione alla durata della vita, e della situazione contributiva del partner deceduto, per le pensioni di reversibilità ai e alle superstiti la situazione si rovescia. Una donna prende 1,6 volte l’importo dovuto agli uomini. Alle vedove vanno in media 9.694 euro l’anno, ai vedovi 6.213 (sempre dati ufficiali aggiornati al 2019): 3.481 euro in più per le donne, dunque, e -35,9%per gli uomini.

«Si tratta però di una prestazione che alle destinatarie arriva generalmente in età molto avanzata. Nonostante l’apparente vantaggio femminile, quanto ricevuto è il minimo indispensabile per evitare alle donne più anziane rimaste sole di cadere nella povertà assoluta», sottolinea la docente della Statale.

Parità per le pensioni assistenziali

La parità si avvicina e quasi si azzera per gli assegni sociali (5.924 annui per i pensionati e 5.817 per le pensionate) e si supera per le pensioni di invalidità civile (5.398 euro l’anno per le donne 5.109 per gli uomini), ma si tratta di prestazioni assistenziali.

Il divario torna a lievitare con le pensioni di invalidità, pari a 9.754 euro per le donne e 14.617 per gli uomini (medie pro capite 2019), con 4.863 euro l’anno in meno per le prime (-33,3%).

Divario ridotto in parte con più pensioni

Il 59,6% delle pensioni – statistiche aggiornate al 1° gennaio 2021 – ha un importo inferiore a 750 euro. In questa fascia le donne rappresentano il 72,6%, del totale. Solo il 43% di beneficiarie e beneficiari riceve prestazioni legate a requisiti reddituali bassi, quali integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali e pensioni di invalidità civile.

L’importo più basso delle singole pensioni è più frequentemente compensato, in chiave femminile, dal cumulo di voci. Le donne riescono a colmare parzialmente il gap rispetto agli uomini perché sono più spesso titolari di più prestazioni contemporaneamente: rappresentano il 58,5% di chi percepisce due pensioni (la seconda è perlopiù la reversibilità, per le donne) e il 69,2% dei beneficiari che ne ricevono tre o più (dati, questi ultimi, riferiti al 31.12.2019).

La differenza economica si riduce a 6.049 euro  se si guarda al reddito annuo complessivo (-27,6% lo squilibrio che resta),  ricavato sommando le singole pensioni  dovute alla stessa persona.

Il punto sulle pensioni di cittadinanza

Ad usufruire della pensione di cittadinanza, introdotta per gli over 67 in parallelo al reddito di cittadinanza, sono 156.115 nuclei familiari, corrispondenti a 176.771 persone in difficoltà e a un importo medio di 267 euro al mese (aggiornamento di fine luglio 2021).

«Con questa misura – è il parere di Olivia Bonardi, sempre con particolare riferimento alle donne – si comincia a dare dignità a chi prima era in condizioni economiche sotto la soglia della decenza».

Beffa per le posizioni silenti

Rilevante è anche la questione delle “posizioni silenti”, richiamata da De Iacobis: «È la situazione di chi prima del 1996 ha lasciato il lavoro senza aver maturato alcun diritto alla pensione, regalando di fatto allo Stato tutta la contribuzione versata.  Le donne sono moltissime, perché hanno avuto un percorso lavorativo più incostante e frammentato».

«Basti pensare – dice ancora De Iacobis – a quelle che, rientrando nel sistema misto, per una serie di ragioni hanno interrotto l’attività versando pochi contributi e che, al raggiungimento dell’età anagrafica prevista, non hanno potuto maturare il diritto alla pensione per la mancanza dei 20 anni di contribuzione minima richiesta. Al momento non esiste alcuna norma che riconosca tali posizioni e che le valorizzi. Si deve porre rimedio».

Gender gap pensionistico: tra rincorsa impossibile e correttivi

Che cosa fare, concretamente? Risponde il dirigente sindacale: «Il lavoro di cura non retribuito, perché svolto dalle famiglie e in prevalenza dalle donne, è una voce fondamentale del welfare informale del nostro Paese. Ma non è considerato, non abbastanza. È ora che queste attività vengano pienamente riconosciute a livello contribuito, previdenziale e pensionistico».

«Come abbiamo proposto al governo, all’interno del confronto sulla riforma delle pensioni, va prorogata e resa strutturale l’Opzione donna, la formula che prevede alcune agevolazioni per le lavoratrici. Deve essere dato un maggiore riconoscimento al lavoro d cura e alla maternità, commisurando i requisiti al numero di figli e di familiari assistiti. Andrebbero inoltre riviste le pensioni di reversibilità, che attualmente corrispondono al 60% dell’ammontare dell’assegno pieno, se non ci sono figli a carico».

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