Tutela della biodiversità: l’Onu punta su conservazione (e sfratto indigeni)

Raddoppio delle aree protette per salvare la biodiversità: la proposta delle Nazioni Unite fa discutere. E mette a rischio il sostentamento di popoli indigeni e comunità locali. Ong, associazioni e ricercatori chiedono di tutelare i diritti umani, anche per proteggere la natura

Proteggere il 30% dei mari e delle terre entro il 2030, ovvero raddoppiare le attuali zone di conservazione. È questa la proposta in discussione: tutela degli ecosistemi e riduzione del 90% del tasso di estinzione. Mentre i paesi si preparano ad approvare il testo che sarà deliberato durante il prossimo vertice delle Nazioni Unite per la Convenzione sulla Diversità Biologica a Kunming, in Cina, si moltiplicano le iniziative private per finanziare parchi naturali e conservazione.

La proposta, però, non incontra solo pareri favorevoli. Anzi. Ong, associazioni e una parte della comunità scientifica, infatti, contestano l’iniziativa, evidenziando gli effetti sui diritti dei popoli indigeni che abitano le zone protette.

Biodiversità e conservazione: finanziamenti per proteggere flora e fauna entro il 2030

Dalla Francia alla Germania, dagli Stati Uniti all’Unione europea, si moltiplicano le iniziative dei governi per pianificare il “30×30” e, soprattutto, per trovare strumenti di finanziamento pubblici e privati diretti alla conservazione. Allo scorso One Planet Summit, svoltosi a Parigi, è nata la High Ambition Coalition for Nature and People, una coalizione di paesi pronti a raggiungere la protezione del 30% delle terre e dei mari entro il 2030.

La Germania ha lanciato l’iniziativa del Legacy Landscape Fund, uno strumento finanziario che si propone di assicurare il finanziamento costante delle aree naturali nel Sud del mondo. L’obiettivo è offrire investimenti per almeno 30 parchi: dal pagamento dei ranger al sostegno per le comunità rurali, fino alla manutenzione delle infrastrutture. All’iniziativa partecipano la banca di sviluppo tedesca, Campaign for Nature, Frankfurt Zoological Society, Iucn, Unesco e Wwf. Tra i fondi privati che contribuiscono all’iniziativa ci sono: il fondo Arcadia, la fondazione Gordon and Betty Moor, la Fondazione Rob & Melani Walton, la Fondazione Wyss.

Anche la Coalition for Private Investment in Conservation si propone di trovare modelli d’investimento e canali di finanziamento in grado di assicurare denaro per la conservazione. La coalizione pubblico-privato vuole raccogliere i contributi di singoli, fondi pensione e investitori internazionali.

Tutela della biodiversità: la situazione di terre e aree marine

A partire dal 2010 più di 21 milioni di chilometri quadrati di terre sono diventati parchi naturali o zone protette. Una superficie pari a quella della Russia. Secondo il rapporto “Protected Planet” a cura del Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep), pubblicato lo scorso maggio, sarebbero circa il 17% delle terre e l’8% delle aree marine del mondo ad essere attualmente protette. Un aumento del 42% rispetto a 10 anni fa.

Guardando la mappa che riporta l’attuale distribuzione delle aree di conservazione emerge come quelle più ampie si trovino soprattutto nel Nord e Sud America, in Africa e in Asia. Ad aver superato il 17% della protezione sul proprio territorio sono: gran parte dei paesi europei, Brasile, Perù, Colombia e Cile, ma anche Mozambico, Namibia, Zambia e Tanzania, oltre all’Australia.

Sono ancora più della metà le eco-regioni terrestri non protette e, secondo il rapporto, la qualità della conservazione rimane bassa. La protezione, riporta il documento, in molte aree non ha dimostrato efficacia.

Dei 20 obiettivi del Piano per la Biodiversità 2011-2020 nessuno è stato pienamente raggiunto. Dalla tutela della fertilità dei suoli all’acqua potabile, dai servizi ecosistemici e dagli impollinatori al controllo degli infestanti: è ancora molto il lavoro da fare secondo il Global Biodiversity Outlook.

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Come tutelare la biodiversità: la scienza dietro il 30×30

I sostenitori della campagna 30×30 evidenziano le ragioni scientifiche della necessità di aumentare le aree protette sul Pianeta: dalla perdita di biodiversità al ruolo dei servizi ecosistemici, dalla mitigazione del cambiamento climatico alla capacità di sequestrare carbonio. Sono più del 60% gli animali selvatici scomparsi negli ultimi 50 anni, più di 72 milioni di ettari la superficie di foresta che perdiamo ogni anno e un terzo delle riserve ittiche scomparse per la troppa pesca.

Nel 2019 il rapporto della Piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes) denunciava il rischio estinzione per circa un milione di animali e piante. Il documento evidenziava anche le minacce per l’uomo: perdita di aria pura e di acqua potabile.

Tutela dell’ambiente e della biodiversità: una strategia che mette a rischio i diritti umani

Mentre i conservazionisti aspettano il vertice di Kunming, più volte rimandato a causa della pandemia, i movimenti che si oppongono all’iniziativa si moltiplicano. Più di 120 i ricercatori, organizzazioni ambientaliste e a difesa dei diritti umani, in una lettera aperta, hanno criticato la proposta delle Nazioni Unite per le gravi violazioni dei diritti umani che potrebbe causare.

Le organizzazioni della società civile, che fanno parte della Convenzione per la Diversità Biologica, in un documento ufficiale evidenziano come il modo migliore per proteggere la natura sia la tutela dei diritti umani di coloro che la abitano: popoli indigeni, donne, comunità locali e giovani. Definiscono discutibile l’obiettivo del 30% e sottolineano come non esista alcuna garanzia di assicurare una gestione equa delle aree.

Survival International, movimento a tutela delle popolazioni indigene, ha organizzato il 2 settembre a Marsiglia un “contro-congresso” internazionale sulla conservazione per denunciare quello che definisce il «più grande furto di terra del Pianeta». L’iniziativa “Our Land, Our Nature” è sostenuta anche da Minority Rights Group e Rainforest Foundation UK. Sotto accusa è proprio l’iniziativa 30×30 e le «false soluzione basate sulla natura».

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Aree protette e land grabbing

Nell’ultimo rapporto “I Padroni della Terra” a cura di Focsiv un capitolo è dedicato al ruolo della conservazione nei casi di accaparramento delle terre. Le aree protette vengono recintate e le popolazioni che vivono all’interno vengono sfrattate. Vengono quindi private delle loro fonti di sostentamento. Non possono più accedere alle foreste, vengono sradicate dai territori che hanno sempre abitato.

Popoli indigeni in pericolo

Survival International, Rainforest Foundation UK e Minority Rights Group International sono in prima linea nel denunciare le violazioni dei diritti umani subite dai popoli indigeni. Ad essere in discussione è il diritto di accesso alla terra ancestrale, che li esclude spesso dalla possibilità di portare avanti le attività tradizionali.

Le comunità indigene subiscono anche la criminalizzazione delle loro attività tradizionali (agricoltura, caccia, pesca e raccolta dei frutti spontanei), mettendo a rischio la loro sovranità alimentare. Spesso l’allontanamento dalla foresta e dai territori ancestrali compromette anche l’accesso alle erbe medicinali.

Survival international, report e inchieste giornalistiche hanno denunciato anche il ruolo repressivo dei ranger, che controllano i confini delle aree protette. Violenze, minacce e uccisioni sono l’effetto della crescente militarizzazione dei guardiaparco, come denuncia il World Rainforest Movement.

Azioni di tutela della biodiversità: gli indigeni sono i migliori custodi

Non sono solo le ong e gli studiosi a evidenziare gli effetti critici dell’ampliamento delle aree protette. Anche Victoria Tauli-Corpuz, ex relatrice speciale Onu per i popoli indigeni in un rapporto del 2018 aveva denunciato le violenze della «conservazione fortezza», gli abusi e le violazioni dei diritti umani. L’ex relatrice speciale aveva evidenziato anche i benefici che potevano derivare dalla tutela dei diritti delle popolazioni indigene per la loro capacità di proteggere la natura.

Protezione dei diritti collettivi e del diritto consuetudinario, tutela dell’accesso alla terra e alle risorse, autodeterminazione, consenso libero, previo e informato: questa la strada indicata dalla rappresentante delle Nazioni Unite.

Vicoria Tauli-Corpuz non è la sola. L’articolo “Conservare la natura, proteggere i diritti umani” è firmato anche da John Knox, relatore Onu per i diritti umani e l’ambiente fino al 2018, gli attuali relatori David Boyd e Mary Lawlor e Michel Forst, ex relatore speciale per i difensori dei diritti umani.

Il ruolo di conservatori dei popoli autoctoni è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Circa 2,5 miliardi di persone, secondo l’International Land Coalition, dipendono da terre indigene o comunitarie, pari a circa il 50% della superficie terrestre, ma vantano diritti legali solo su un quinto di essa. Si tratta di comunità che vivono in aree con una forte biodiversità e che contribuiscono alla tutela e alla prosperità della natura.

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Difendere l’ambiente è pericoloso

Land grabbing, attività mineraria, taglio del legname e bracconaggio sono tra le attività che più mettono a rischio le popolazioni indigene. Distruggono le loro fonti di sostentamento, costringono le comunità a rifugiarsi lontano dalla foresta, li privano della relazione culturale e spirituale con la natura.

I leader indigeni, proprio per il loro impegno nella difesa della natura, sono spesso vittime di attacchi violenti, minacce e omicidi. Dei 331 difensori dei diritti umani uccisi nel 2020, due terzi stavano difendendo l’ambiente e le terre indigene, secondo Front Line Defenders.

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Taglio del legname

Un altro modo per tutelare la biodiversità: le richieste ai conservazionisti

La società civile chiede che vengano effettuate delle ricerche indipendenti sugli impatti sociali nelle aree attualmente protette, prima di definire nuovi target.

A questa richiesta si aggiunge la necessità di rafforzare i diritti sulla terra delle comunità e di valutare l’impatto ambientale e sociale nelle aree destinate a diventare protette.

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