Padre Stan Swamy, “omicidio di Stato” per il gesuita che difendeva gli ultimi
Padre Stan Swamy è morto in India a 84 anni dopo nove mesi di carcere. Aveva dedicato la sua vita a popoli indigeni ed emarginati. Incastrato sulla base di accuse mai provate, era accusato di essere un fiancheggiatore dei terroristi. Lo ricordiamo a 45 giorni dalla morte
Padre Stan Swamy si è spento esattamente 45 giorni fa, lo scorso 5 luglio, in un ospedale di Mumbai, in India, dove era stato trasferito dal carcere in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute.
Il prete gesuita, che ha combattuto tutta la vita per i diritti degli Adivasi (i popoli indgeni autoctoni del Subcontinente) nelle foreste più remote del Paese, era in cella da 9 mesi, nella prigione di Taloja a Mumbai, nonostante avesse 84 anni e fosse gravemente malato di Parkinson. Ma, soprattutto, come altri attivisti e voci critiche, era in carcere sulla base di accuse mai provate.
La sua morte è arriva dopo accese proteste e accorati appelli internazionali per la scarcerazione dei prigionieri politici in India, soprattutto in tempo di Covid-19.
Nessuna giustizia per padre Stan Swamy
È proprio nella cella in cui era rinchiuso da mesi, in condizioni deplorevoli, che l’anziano gesuita-attivista aveva contratto il coronavirus durante la violenza della seconda ondata pandemica, che ha messo in ginocchio il Paese (leggi Covid India: 200mila morti e milioni di contagi, seconda ondata fuori controllo).
Nei giorni precedenti la sua morte, l’Alta Corte di Mumbai stava valutando una petizione avanzata dallo stesso Swamy per il suo rilascio su cauzione per motivi medici. Come in altri casi, la giustizia non ha fatto in tempo a mostrare un volto umano: padre Stan è morto da arrestato, in un caso costruito ad arte per incastrare attivisti e pensatori liberi che il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party bolla come elementi “anti-nazionali”.
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Il gesuita-attivista vicino agli indigeni dell’India
Father Stan, come il gesuita era chiamato da quanti erano vicini a lui e alle sue battaglie, aveva combattuto contro le brutali uccisioni, gli stupri, le torture, le morti in custodia e i casi di false accuse mosse dalla National Investigation Agency (Nia) – l’agenzia federale che si occupa di terrorismo – contro migliaia di Adivasi innocenti.
La stessa Nia che lo ha arrestato a Ranchi nello stato federato del Jharkhand, dove viveva, lo scorso ottobre gli ha ripetutamente negato la scarcerazione nonostante le gravi condizioni di salute: ci sono volute settimane anche per ottenere una semplice tazza salva-goccia per aiutarlo a bere: l’aggravarsi della malattia gli aveva fatto perdere l’autonomia e dipendeva dall’aiuto dei compagni di cella.
Swamy è stato un gesuita molto attivo nel sociale e si batteva per i diritti e l’eguaglianza delle popolazioni più marginalizzate. È stato il fondatore del Vistapan Virodhi Janvikash Andolan (Vvja), una piattaforma di organizzazioni che si occupano delle violazioni dei diritti umani legate allo sfratto degli Adivasi dalle loro terre ancestrali in nome dello sviluppo e dell’estrattivismo ed era il coordinatore del Persecuted Prisoners Solidarity Committee (Ppsc), un comitato nato per denunciare gli enormi ritardi nelle sentenze a carico dei prigionieri Dalit e Adivasi che languono nelle carceri indiane da anni in attesa di processo.
“Omicidio di Stato”, le reazioni alla morte di padre Stan Swamy
Il leader studentesco Anirban Bhattacharya ha scritto di Father Stan: «Non era uno spettatore silenzioso. Ha fatto sentire la sua voce ovunque vedesse un’ingiustizia. Un paese che non riesce a onorare i custodi della sua anima cessa di essere una vera democrazia».
La morte di Stan Swamy, gesuita e attivista che credeva nella religione della giustizia universale e dei diritti umani, ha suscitato un moto di rabbia e indignazione, non solo nella comunità cristiana, ed è stata da più parti definita “un omicidio di Stato”.
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Il caso di Bhima Koregaon e i cosiddetti “BK16”
Swamy era l’ultimo e il più anziano delle 16 persone – tra avvocati, attivisti, difensori dei diritti umani, docenti, studenti e giornalisti (sette dei quali hanno contratto il coronavirus in cella) – falsamente accusate e arrestate in relazione al caso di Bhima Koregaon, gli scontri tra alte caste e Dalit (i “fuoricasta” dell’ineluttabile gerarchia sociale indiana) nel Maharashtra, lo stato di Mumbai, avvenuti nei primi giorni del 2018.
L’accusa a suo carico era di “fiancheggiamento” dei ribelli maoisti, un gruppo armato che da oltre 50 anni porta avanti una guerriglia armata nelle foreste dell’India centrale.
I ribelli Naxaliti, considerati terroristi dallo Stato, sono attivi in diversi stati orientali e centrali: l’insurrezione maoista – duramente repressa dai vari governi che si sono succeduti – mira a instaurare il comunismo e a far valere i diritti delle popolazioni tribali, dei Dalit e dei poveri rurali.
A tre anni dai fatti di Bhima Koregaon, nessuna accusa a carico degli attivisti incarcerati è stata però corroborata da prove.
Il caso di cospirazione è stato montato per incastrare e silenziare le voci critiche che non hanno mai smesso di «dire la verità al potere». Anzi, è di recente stato confermato da analisi forensi riprese dal Washington Post che per almeno due degli accusati nel caso di Bhima Koregaon le prove sono state introdotte nei computer con un malware: decine di file nascosti che incastrano gli attivisti con gravi accuse.
Lotta al terrorismo e criminalizzazione del dissenso in India
L’arresto di Father Stan, e poi la sua morte, hanno gettano una luce – seppur fioca – sulla grave situazione in cui versa la giustizia indiana. Negli ultimi anni, sotto il governo guidato da Narendra Modi, il sistema giudiziario indiano si è reso complice di un duro giro di vite contro il dissenso, facendo sempre più ampio ricorso all’Unlawful Activities Prevention Act (Uapa), la legge anti-terrorismo che autorizza la detenzione degli accusati per 180 giorni, anche senza prove.
L’attività illecita viene vagamente definita come qualsiasi azione, sia da parte di un individuo sia di un’associazione, che «disconosce, mette in dubbio, interrompe o intende interrompere la sovranità e l’integrità territoriale dell’India» o «causa o è destinata a causare disaffezione verso l’India».
Nel 2019 sono stati registrati 1.226 casi ai sensi dell’Uapa, un aumento del 33% rispetto al 2016. A finire in carcere, chiunque levi la sua voce contro il governo.
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Il “lento omicidio” di padre Stan Swamy
«Quello che mi è successo non riguarda solo me. È una situazione che riguarda moltissime altre persone in tutta l’India. Sappiamo tutti in che modo intellettuali, avvocati, scrittori, poeti, attivisti, studenti, attivisti di tantissimi movimenti in India, vengono sbattuti in prigione solo per aver espresso il loro dissenso, o per aver criticato quelli che ci governano. Siamo tutti in questa situazione. E in un certo senso sono felice di essere da questa parte della barricata. Non come testimone più o meno inerme o silente, ma come parte attiva. Pronto a pagarne il prezzo, qualunque sia», aveva detto Father Stan prima di essere arrestato lo scorso ottobre.
Il 7 luglio gli altri attivisti detenuti nel carcere di Mumbai per il caso Bhima Koregaon hanno aderito ad uno sciopero della fame in protesta per l’omicidio istituzionale di Padre Stan Swamy.
Oltre 25 mila persone si sono collegate da tutto il mondo per seguire in remoto il suo funerale a Ranchi. La scrittrice Arundhati Roy ha scritto sulla pagine di Scroll:
«Il lento omicidio di Stan Swamy è il microcosmo del non-così-lento omicidio di tutto quello che ci permette di definirci una democrazia. Siamo governati dai demoni. Hanno lanciato una maledizione su questa terra».