Moira Millán, in marcia contro il terricidio e per le donne indigene
Donna, indigena mapuche, madre, autrice del libro El tren del olvido (Il treno dell'oblio), Moira Millán lotta da una vita per la difesa della terra e del suo popolo in Argentina. Ecco cosa ha raccontato a Osservatorio Diritti
da Medellin, Colombia
La frase del presidente argentino Alberto Fernández del 9 giugno scorso ha gettato sale su una ferita aperta, in un paese, l’Argentina, che continua la narrativa della negazione del passato indigeno. Dalla Casa Rosada, palazzo del governo, Fernández ha dichiarato:
«I messicani discendono dagli indios, i brasiliani sono usciti dalla giungla e gli argentini sono scesi dalle navi, navi che sono arrivate dall’Europa».
Una frase che ha destato polemiche in tutta la regione e che ha portato di nuovo alla ribalta le lotte dei 36 popoli indigeni originari dell’Argentina. Per affrontare questo delicato argomento, Osservatorio Diritti ha intervistato Moira Millán, donna della nazione indigena mapuche che dalla Patagonia è stata una delle voci che hanno protestato contro le parole di Alberto Fernández.
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Chi è Moira Millán
Moira Millán si autodefinisce come una donna indigena mapuche, una weichafe (guerriera), parola che nella lingua mapundungun non assume però il carattere bellicista che è invece intrinseco nel concetto occidentale del termine. Nella cultura della nazione indigena mapuche, il weichan è un atto di autodifesa e pertanto il weichafe è un difensore, del proprio popolo e del proprio territorio.
Con questo spirito si nasce e Moira, all’età di 18 anni, ha assunto la sua missione di weichafe in difesa della mapu (terra), concetto ampio e olistico che rimanda a un ecosistema tangibile e un ecosistema percettibile, un newen (forza, energia) che ci circonda e ci avvolge continuamente. Moira è anche membro fondatore del Movimento delle donne indigene per il Buen Vivir.
Cosa significa oggi essere una donna indigena mapuche weichafe e madre in Argentina?
In questa Argentina eurocentrica, bianca e suprematista è davvero molto difficile. Di solito in riferimento a questo aspetto, dico che mi è toccato essere donna indigena nel peggiore dei paesi dell’indo America. Perché se immaginiamo ad esempio il Canada e gli Usa (contesti terribili per le nazioni indigene ancestrali), almeno esiste una rivendicazione folclorica del loro passato e una certa visibilità.
In Argentina invece abbiamo l’omissione totale e assoluta dell’eredità indigena. Credo che bisognerebbe creare un nome specifico per questo tipo di violenza, una violenza che è la negazione stessa della tua esistenza. È drammatico dover continuare a lottare per affermare la tua esistenza mentre tutto quello che ti circonda, istituzionalmente parlando, lo nega. Nella narrazione statale ci hanno letteralmente sterminato e perciò non esistiamo.
Questo è un meccanismo di violenza enorme contro l’identità, un processo che ti obbliga alla clandestinità per esercitare la tua spiritualità, per parlare la tua lingua, per curarti in modo naturale, per partorire secondo le pratiche ancestrali, per vivere. La negazione non implica solo escluderci dalla narrativa storica, la negazione significa non riconoscere che siamo qui, togliendoci il diritto all’esistenza: è una vera e propria prassi genocida e un epistemidicio.
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Qual è la lotta che state portando avanti come nazione indigena mapuche?
La nazione indigena mapuche conta con 24 milioni di persone e si divide tra Cile e Argentina. La mapu abitata dal nostro popolo è geopoliticamente strategica perché nel sottosuolo ci sono ingenti quantità di petrolio e di minerali che risultano necessari, anzi fondamentali, soprattutto per l’industria bellica.
La nazione mapuche quando insorge per proiettare un cammino di emancipazione e liberazione, lo fa partendo da una logica ancestrale antagonista a quella della cultura dominante. Un’alternativa epistemica, civilizzatrice, contestataria, che interpella la struttura che ci sottomette e lo fa in modo propositivo. E credo che la parte più pericolosa per lo Stato sia propria questo, che è una lotta propositiva. Questo la converte nel terrore della corporocrazia (governo delle multinazionali) e fa in modo che ci venga attribuita l’etichetta di terroristi.
La nazione mapuche sta realizzando una rivoluzione basata sull’organizzazione territoriale, la resistenza e la lotta, affrontando (senza sparare un colpo) gli Stati oppressori che si usano la violenza come strumento di repressione. In questi ultimi anni abbiamo appreso ad articolarci con altri settori e quanto successo in Cile negli ultimi mesi, dove la bandiera della nazione mapuche è stata protagonista nelle proteste, ne è la prova.
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Qual è il ruolo delle donne in questa lotta e da dove viene la vostra forza?
Dentro i corpi-territorio delle donne indigene esiste una memoria ancestrale di lotta, resistenza e resilienza. Parlando solo della nazione alla quale appartengo posso dire che nel nostro passato abbiamo avuto molti esempi di donne incredibili che hanno lottato senza aver avuto visibilità o riconoscimento dento la storia ufficiale.
Il popolo mapuche, come tutti i popoli indigeni e come tutto il Pianeta terra, è stato attraversato dal patriarcato e dal machismo. Abbiamo avuto molte voci maschili referenti del nostro popolo, voci di uomini politicamente molto abili che però nello spazio familiare si sono dimostrati oppressori verso le mogli, le figlie e permeati del peggior maschilismo. Queste voci stanno perdendo credibilità dentro la comunità in favore di donne che con rispetto e una diversa visione, stanno guidando una nuova tappa della rivoluzione.
Le donne si sono convertite in una forza strutturale di questo processo di lotta esattamente perché su di loro cade tutta la violenza della società e riverbera tutto il peso della morte, sia umana sia della natura. Questo è il concetto di base della marcia contro il terricidio, un cammino di 1.900 km che abbiamo realizzato attraverso il Movimento delle donne indigene per il Buen Vivir, dalla Patagonia a Buenos Aires, dal 14 marzo al 22 maggio scorso. Ed è anche la ragione che ci ha spinto a denunciare con forza la pratica del chineo.
Che cos’è il chineo?
Il chineo è una pratica che arriva ai nostri giorni dai tempi della colonia e riguarda le giovani donne indigene che si trovavano in condizione di schiavitù. I padroni bianchi, non appena si accorgevano che le bambine indigene erano entrate nella tappa mestruale (10-12 anni), le violentavano per marcare un passaggio rituale nella loro sessualità e riaffermare la propria virilità. Un modo per ribadire la loro proprietà sulla bambina, un rituale che veniva addirittura festeggiato dai padroni, che solevano offrire un animale come ricompensa alla famiglia della giovane.
Ad oggi abbiamo dovuto iniziare una campagna #bastadechineo, per chiedere al mondo che riconosca che il chineo, praticato ancora nel 2021 nel nord del paese, sia dichiarato un crimine e eliminato una volta per tutte. In questa società specista, dove gli uomini cacciano non per necessità ma solo per dimostrare quanto sono machos, il chineo viene visto e interpretato da questi maschi come un altro rituale di caccia, dove il ruolo delle prede è giocato dalle bambine indigene.
Attenzione però, gli stupri alle bambine indigene sono sì giudicati dalla giustizia argentina, ma il problema è che vengono ammantati dalla dicitura “pratica culturale”, che fa cadere tutto nella più assoluta impunità. Questo perché ci troviamo di fronte a diversi problemi. Da un lato c’è la violazione e mancata applicazione dei diritti linguistici, elemento che impedisce a una madre indigena che non è ispanoparlante, di poter denunciare in modo dettagliato quanto accaduto.
Dall’altro, il fatto che la questione di solito viene risolta dalla giustizia statale chiamando il cacique della comunità (capo) dove sono avvenuti i fatti: un uomo che spesso è parte di questo sistema patriarcale di oppressione (molte volte sono loro che consegnato le bambine agli stupratori) e che ha tutto l’interesse a non dare visibilità a questi casi.
È per questo che una delle nostre lotte è la creazione di centri di difesa territoriale delle donne indigene: semplicemente abbiamo capito che non possiamo delegare la rappresentazione, amministrazione e agenzia dei nostri diritti a coloro che sono parte dell’ingranaggio dell’oppressione. La società argentina non reagisce a tutto questo perché quelli che vengono violentati sono i corpi razzializzati di bambini indigene, non di bambine bianche europeizzate che, come dice Fernández, sono scese dalle barche. Per capire tutto questo, basti pensare che anche parte del movimento femminista in Argentina è rimasto silente di fronte alla nostra lotta.
Moira Millán, lei ha pubblicato il libro El tren del olvido (Il treno dell’oblio), che permette di vedere il passato della nazione mapuche in Argentina con altri occhi. Perché lo ha scritto?
Si tratta di un libro che nasce dall’amore verso la cosmovisione del mio popolo, un modo per poter raccontare il nostro mondo, il nostro sentire e la nostra storia. I fatti raccontati nel libro hanno un fondo storico reale e mi hanno permesso di raccontare cosa è successo in Argentina attraverso lo sguardo della nazione mapuche: una vera e propria controstoria, che si oppone alla narrativa ufficiale dello Stato.
La letteratura in questo caso mi aiuta a continuare questa rivoluzione e a far sentire una voce fuori dalla blanquitudine argentina, irrompendo con una narrativa che ripensa il paradigma del progresso, della modernità e del bene e del male.