Rivolta nel carcere di Modena: dubbi e contraddizioni sulle morti dell’8 marzo/1

Dalle indagini emergono tanti punti ancora da chiarire: orari che non combaciano, referti medici discordanti, confusione nei soccorsi. E lunedì 7 giugno il Gip dovrà decidere se archiviare tutto o continuare a scavare. Ecco la prima puntata dell'inchiesta di Osservatorio Diritti sui detenuti morti nel carcere di Modena durante o in seguito alla rivolta dell'8 marzo 2020

L’8 e il 9 marzo 2020, mentre il lockdown chiudeva l’Italia intera, decine di carceri furono devastate da rivolte e sommosse. Al Sant’Anna di Modena i detenuti assaltarono la farmacia e rubarono litri di metadone e psicofarmaci in quantità. Morirono in nove, per presunte overdose. Altri tre ci rimisero la vita a Rieti, un altro ancora a Bologna. Una strage senza precedenti. L’inchiesta modenese, partita e portata avanti contro ignoti, è arrivata al primo bivio. Il 7 giugno 2021 il Gip dovrà decidere se archiviare o meno le indagini. Gli avvocati di  vittime e familiari chiedono di scavare ancora e più a fondo, rispondere alle domande rimaste senza risposta, identificare le persone da perseguire penalmente. In vista dell’udienza la procura ha depositato atti e documenti, visionati da Osservatorio Diritti, così  come le controdeduzioni di legali e consulenti. Questa è la prima puntata di un’inchiesta a cui seguiranno altre puntate nei prossimi giorni.

Le altre puntate dell’inchiesta:
Rivolta nel carcere di Modena: dubbi e contraddizioni sulle morti dell’8 marzo/2
Rivolta nel carcere di Modena: dubbi e contraddizioni sulle morti dell’8 marzo/3
Rivolta nel carcere di Modena: il gip archivia l’inchiesta sui morti dell’8 marzo

Verbali con le dichiarazioni dei testimoni. Relazioni delle autopsie e delle analisi tossicologiche. Annotazioni e rapporti di servizio. Copie di mail e appunti manoscritti. Una manciata di foto segnaletiche, le prime a mostrare i volti delle vittime a chi non le conosceva, mesi dopo la conta dei cadaveri.

La storia delle ultime ore di vita e della morte nove detenuti del carcere Sant’Anna di Modena – la strage di marzo 2020 – è racchiusa in quattro faldoni custoditi nella cancelleria del tribunale. Si tratta degli atti depositati dalla procura e messi a disposizione delle parti, assieme alle opposizioni dei legali.

Osservatorio Diritti ha potuto accedere all’intera documentazione, prodotta e disvelata in vista dell’udienza in programma lunedì 7 giugno 2021.

Rivolta carcere di Modena: tra archiviazione e nuove indagini

Il gip Andrea Salvatore Romito dovrà prendere una decisione spartiacque, scegliendo tra due alternative e due tesi opposte. Archiviare le indagini, come auspicano le pm titolari dell’inchiesta, e chiudere il caso. Oppure disporre nuovi accertamenti e far identificare i soggetti da perseguire, come chiedono i legali in campo (Luca Sebastiani per il padre e il fratello di Hafedh Chouchane, Giampaolo Ronsisvalle per il garante nazionale dei detenuti, Simona Filippi per l’associazione Antigone).

Le indagini coordinate dalle sostitute procuratrici Francesca De Santis e Lucia Graziano, supervisionate nella fase finale del procuratore pro tempore Giuseppe Di Giorgio, furono aperte e si sono chiuse a fine febbraio restando «contro ignoti».

«Omicidio colposo» e «morte come conseguenza di altro delitto» i reati ipotizzati e infine esclusi, almeno per ora.

Il giudice ha una terza opzione. Disporre imputazioni coatte, ma è un esito che pare improbabile.

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Otto dei novi detenuti morti durante e dopo la rivolta del carcere Sant’Anna di Modena (il nono è Salvatore Sasà Piscitelli, foto più sotto). Dall’alto: Ali Bakili, Slim Agrebi, Erial Ahmadi, Hafedh Couchane, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Lofti Bem Mesmia, Abdellah Rouan

Indagini sui decessi dei detenuti: ancora troppi dubbi

L’inchiesta al bivio coinvolge quattro istituti (Alessandria, Parma e Verona, oltre a Modena) e riguarda otto detenuti morti (Hafedh e Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu e Abdellha Rouan).

Per il nono, Salvatore Sasà Piscitelli, la competenza è tornata alla procura di Ascoli dopo un doppio giro di rimpalli.

L’impressione, scorrendo e leggendo le carte nei faldoni, è che le indagini siano rimaste in superficie e non rispondano a tutte le domande sulla strage. Al contrario, innescano una serie di interrogativi e moltiplicano i dubbi.

Non sono state ricostruite le catene di comando, in uno scenario più che complesso e caotico. Ed è stato adottato un approccio investigativo non condiviso  dai legali: tenere distinta l’inchiesta sui decessi dall’inchiesta sulle omissioni e sui presunti pestaggi denunciati da almeno nove scampati, trattando in separata sede anche il fascicolo sulla rivolta, sulle devastazioni e sulla razzia di sostanze potenzialmente letali. Il tutto nonostante le evidenti connessioni e sovrapposizioni.

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Salvatore Sasà Piscitelli è stato attore nella compagnia teatrale del carcere di Bollate (Milano) – Foto: © Angelo Redaelli

Procura e legali delle vittime: tesi contrapposte sui fatti dell’8 marzo

La procura sembra non avere dubbi. «I detenuti  in rivolta – dice in sostanza, sintetizzando la richiesta di archiviazione  – assaltarono l’infermeria, rubarono metadone e psicofarmaci, li distribuirono e ne fecero liberamente uso, nascondendo le scorte. Morirono tutti per overdose. La colpa dunque è loro e solo loro. Non sono emerse concause, non ci sono responsabilità di terzi. E se qualcuno ha sbagliato, o non ha rispettato alla lettera norme e direttive, è perché si è trovato  a operare in condizioni di emergenza. Va giustificato».

Gli avvocati non concordano. «I detenuti – incalzano – erano sotto la custodia dello Stato e lo Stato aveva l’obbligo giuridico di tutelare la loro vita e la loro incolumità personale. Sui soggetti in posizione di garanzia, inspiegabilmente non identificati, ricadeva l’onore di impedire quegli eventi tragici che invece si sono verificati».

E questo vale sia per il personale dell’amministrazione penitenziaria sia per i medici e gli infermieri interni ed esterni, su cui hanno competenza le Regioni, rimaste fuori campo  e silenti.

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Morti nel carcere Sant’Anna: Hafedh Chouchane, 36 anni, tunisino

Per Hafedh, il primo a perdere la vita, l’avvocato Sebastiani pone all’attenzione del gip questioni basilari di fondo. Sono stati rispettati i protocolli per la gestione e la custodia di metadone e psicofarmaci? Perché erano disponibili in grandissime quantità, ben oltre il fabbisogno giornaliero? E perché le dichiarazioni delle due infermiere al lavoro nella  farmacia del carcere, M.D.B e L.M., non convincono?

Inizialmente era stato detto che i rivoltosi avevano tagliato con un flessibile la cassaforte con dentro  le scorte di metadone. Non è andata così. O l’armadio blindato non è stato chiuso dalle colleghe impegnate a smistare le dosi, come sembra verosimile. Oppure, come sostengono loro, è stato aperto dai detenuti con la chiave presa da una cassetta di sicurezza, quella sì forzata.

La procura abbraccia la seconda spiegazione, senza alcun riscontro oggettivo negli atti.  La polizia, incaricata delle indagini, non ha chiesto chiarimenti alle infermiere. E della misteriosa cassetta di sicurezza nei verbali di sequestro e nelle annotazioni  non c’è traccia.

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rivolta in carcere
Hafedh Chouchane, 36 anni, di origine tunisina

Tempi, orari, luoghi: contraddizioni nelle testimonianze su quanto accaduto nel presidio di Modena

Anche Hafedh, è assodato, fa uso di metadone e di psicofarmaci. L’orario di soccorso e il punto di prelievo dell’uomo però sballano, cambiano a seconda del testimone interpellato. Eppure il tema della tempistica, necessario per accertare eventuali ritardi nell’assistenza sanitaria o possibili omissioni, non è stato preso in considerazione nemmeno in sede di autopsia.

«Vi sono giganteschi buchi orari. In quel tempo per salvarlo qualcosa si sarebbe potuto fare, si sarebbe dovuto fare», rileva il legale dei padre e del fratello.

Lesioni ed ecchimosi non certificate dall’inizio

Il medico del 118 che constata il decesso, il dottor G.C.,  scrive un appunto a mano. Attesta di non aver avuto modo di riscontrare alcuna lesione fisica su Hafedh, a torace scoperto e in pantaloncini corti o mutande e dunque con buona parte del corpo esposta alla vista.

L’esame esterno del cadavere, ad opera delle anatomopatologhe S.D. e M.L., certifica invece la presenza di escoriazioni ed ecchimosi all’avambraccio destro e alla mano, alla gamba destra e alla schiena. Le lesioni  vengono ritenute modeste e non influenti sul decesso.

Secondo le esperte, sono da correlare a non meglio precisate «azioni di natura contusiva presumibilmente verificatesi durante la rivolta». Le cicatrici sul braccio sinistro rimandando a un vecchio tentativo di suicidio. Poi però gli scampati parleranno di pestaggi e manganellate, oggetto di separata inchiesta.

Rivolta in carcere: soccorsi adeguati?

L’8 marzo 2021 al Sant’Anna ci sono decine di detenuti da visitare, in condizioni definite da «medicina da campo da guerra. Non ci stanno tutti sotto i due tendoni allestiti dal 118. Molti vengono assistiti sull’asfalto o nel prato, con manovre complesse. Si deve fare in fretta, per strappare alla morte chi sta peggio. Non c’è il tempo neppure per chiedere nome e cognome e per compilare le certificazioni delle visite.

Il dottor C., arrivato alle 18 al piazzale del carcere, alle 21 decide comunque di staccare. È domenica sera, il turno è finito, ha diritto a riposare. Se ne va, nonostante la drammaticità della situazione, quella che poi per i medici e per la procura giustificherà omissioni e smagliature.

Tra le vittime della rivolta c’è Erial Ahmadi, 37 anni, maghrebino

Gli dà il cambio il collega F.F., mesi dopo stroncato dal Covid. Tocca a lui constatare  i decessi di altri due detenuti, persone di cui non conosce l’identità. Anche per Erial Ahamadi (identificato anche come Bilel Methnani), accertata la morte alle 23.15 dell’8 marzo, si attesta che «apparentemente non presenta segni di traumatismi esterni».

Cinque giorni dopo, all’esame esterno del cadavere, vengono rilevate ecchimosi ed escoriazioni al naso, alla bocca, a una ascella e a una gamba e in altre parti del corpo ancora. La conclusione della procura è sempre la stessa: lo ha ucciso una overdose di metadone, le ferite se le è procurate durante la sommossa e non hanno contribuito al decesso.

Indagini sui decessi dei detenuti: domande senza risposta

Gli avvocati contrari all’archiviazione pongono altre domande, ineludibili eppure eluse dall’inchiesta. Risorse e mezzi schierati dal 118 erano sufficienti e proporzionati a centinaia di detenuti e detenute da assistere e curare, 546 persone? È stato correttamente applicato il protocollo per le maxiemergenze e quale? La gravità della situazione, poi sbandierata per giustificare ogni cosa, è stata compresa o sottovalutata dai responsabili della medicina d’urgenza? Sarebbero serviti più dottori, più infermieri, più tendoni, più volontari?

In attesa di reperire e leggere le linee guida ufficiali (e non solo l’opuscolo allegato agli atti e relativo alla provincia di Bologna), affermazioni e risposte parziali sono sparse nei verbali con le dichiarazioni degli operatori sanitari.

Quaranta visite in due ore durante la rivolta nel carcere di Modena: possibile?

La dottoressa S.P. prende servizio alle 21 dell’8 marzo. Si trova catapultata in una situazione senza precedenti. Vede che i posti letto del posto medico avanzato, un tendone, non bastano. Sono solo «circa sei», quantificherà a spanne i il collega F.. Così lei si consulta con il coordinatore (potrebbe essere P.D o C.C., citati in altri passaggi degli atti) e fa montare una seconda tensostruttura.

In un paio d’ore, parole sue, visita circa una quarantina di detenuti. Tre minuti a testa, la media. Abbastanza per definire e considerare “visita” il rapido contatto con i singoli carcerati da trattare.

Il dottor G.C. aggiunge un altro particolare utile per valutare la qualità dell’intervento del 118 e dei volontari al seguito, unità  di Protezione civile e Croce rossa non meglio indicate. I farmaci salvavita a disposizione, per contrastare le overdosi, non sono sufficienti. Rivela: «Siamo stati costretti a farci portare altro antidoto dal pronto soccorso».

Slim Agrebi, 40 anni, tunisino

Slim si sente male all’interno del carcere incendiato dalla rivolta e fuori controllo. Sembra svenuto. Non si muove più. I compagni provano a rianimarlo poi lo portano alla rotonda, assieme a Hafedh Chouchane, e lo affidando agli agenti. Dalle carte si deducono tre orari diversi, sfasati.

Il decesso è constatato alle 22.00, potrebbero essere passare ore o decine di minuti. Il medico del 118, F.F., non nota lesioni esterne né segni di traumi. In sede di esame esterno del cadavere le escoriazioni e le ecchimosi vengono viste e appuntate. Sono al volto, alle gambe, alle braccia. L’autopsia esclude che abbiano in qualche modo contribuito alla morte.

La procura non approfondisce. Conclude, anche per Slim: «È evidente come nessun profilo di responsabilità sia ravvisabile in capo a chicchessia in relazione al suo decesso, determinato esclusivamente da intossicazione acuta da assunzione incongrua di metadone, riconducibile alla sua esclusiva volontà».

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