Brasile, il gigante minerario Vale SA accusato di “razzismo ambientale”
Il maggior produttore al mondo di ferro e nichel è al centro di un rapporto che ne denuncia l'insostenibilità, le responsabilità nei danni ad ambiente e popolazione e gli sforzi insufficienti per compensare le vittime dei disastri di Mariana e Brumadinho. E durante la pandemia la Vale SA ha aumentato i profitti
Non soltanto la Vale S.A. mentirebbe, fregiandosi di essere un’impresa “responsabile”, consapevole delle ricadute della propria attività sull’ambiente e sulla società: dietro i tentativi di uno dei maggiori gruppi minerari del mondo (la sede centrale è in Brasile) di ripulire la propria immagine all’insegna della “sostenibilità”, non ci sarebbe altro che una serie di crimini costanti contro le popolazioni locali e ai danni del territorio e delle risorse naturali. Crimini non riconducibili a incidenti ed eventi isolati, ma «parte intrinseca dei suoi megaprogetti» miranti, ovviamente, al profitto.
È questo il cuore delle accuse contenute nel Rapporto di insostenibilità della Vale 2021, realizzato dall’Articulação Internacional dos Atingidos e Atingidas pela Vale (Articolazione internazionale delle persone colpite dalla Vale, Aiaav), un gruppo di organizzazioni, movimenti sociali e sindacati di Brasile, Argentina, Cile, Perù, Canada e Mozambico (su Youtube è possibile assistere alla del documento).
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L’Aiaav dal 2010 denuncia le colpe della maggior produttrice ed esportatrice al mondo di ferro e nichel (fino al 2007 conosciuta come Vale do Rio Doce).
Costituita nel 1942 come impresa statale e successivamente privatizzata nel 1997 (anche se il governo brasiliano mantiene una golden share, un diritto di veto su alcune decisioni rilevanti), è presente in una trentina di paesi ed è attiva anche nella logistica (con ferrovie, porti ed altre infrastrutture), nel settore energetico e in quello siderurgico.
Il documento dell’Aiaav replica ai contenuti presentati dal gruppo Vale nel suo rapporto annuale 2020: 185 pagine che sottolineano gli sforzi fatti per riparare ai danni provocati da disastri come quello del crollo della diga di Brumadinho nel 2019 (per cui è stato firmato un controverso accordo di riparazione che prevede forme di indennizzo alle vittime), salvaguardare la biodiversità, pianificare la gestione dei rischi, ridurre l’impatto ambientale e tutelare la salute, la sicurezza e i diritti umani dei lavoratori e delle popolazioni residenti nelle aree in cui l’impresa è attiva.
Per l’Aiaav si tratta solo di marketing, finalizzato a nascondere l’unico vero obiettivo dell’azienda: il profitto.
Brasile «complice» del settore minerario
Sotto accusa c’è però anche la complicità dello Stato, che avrebbe rinunciato a regolamentare l’attività mineraria e a difendere i diritti fondamentali e la natura: al contrario, permetterebbe a questo settore di autoregolamentarsi, concedendo pure importanti incentivi fiscali, esenzioni e sussidi.
Il culmine è stato raggiunto con la pandemia: nel marzo del 2020 il Ministero dell’energia e dell’attività mineraria ha approvato un decreto, poi ratificato dal governo federale, che include tutti i segmenti del settore fra i “servizi essenziali”. Ciò ha permesso alla Vale di incrementare i propri profitti fino a 27 miliardi di reais, pari a oltre 4,186 miliardi di euro.
Allo stesso tempo, racconta The Intercept Brasil, le norme di distanziamento e sicurezza in vari impianti non venivano rispettate, ai danni dei dipendenti, la maggior parte dei quali è terzierizzata: una strategia che secondo l’Aiaav è tesa a ridurre il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori.
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Vale SA al centro dei disastri di Brumadinho e Mariana
Secondo il rapporto di insostenibilità della Vale, non si è trattato di incidenti: i disastri di Mariana (2015) e Brumadinho (2019) sarebbero il frutto delle consapevoli scelte politiche e tecnologiche dell’azienda.
L’intensificazione dell’attività estrattiva, il mancato rispetto delle norme di sicurezza e la costruzione di bacini di decantazione (per i liquidi carichi di materie solide) con metodi eccessivamente economici, avrebbero portato al cedimento di questi in due miniere di ferro nello stato di Minas Gerais: quella Bento Rodrigues – gestita dalla Samarco Mineração SA, joint venture fra Vale e Bhp Billton – e quella di Córrego do Feijão. Nel primo caso sono morte 19 persone e il fiume Rio Doce è stato pesantemente contaminato, mentre nel secondo le vittime accertate sono state 259, oltre a 11 dispersi.
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Per l’Articolazione delle vittime della Vale si tratta di «razzismo ambientale»
Risparmiare a tutti costi – avvantaggiandosi della mancanza di controlli e vigilanza da parte dello Stato – non sarebbe altro che una manifestazione di «razzismo ambientale»: un atteggiamento e una prassi strutturata di sfruttamento dei territori in cui vive la popolazione più povera, a grande maggioranza afrodiscendente o indigena, e di discriminazione e indifferenza nei loro confronti.
Tale razzismo ignora volutamente, ad esempio, che per gli indigeni Krenak la contaminazione del Watu (il Rio Doce) «equivale alla morte di un parente» e non è soltanto una privazione di «risorse naturali».
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Gestione neoliberale dei conflitti socioambientali in Brasile
Anche i risarcimenti e le compensazioni a favore delle vittime non sarebbero che il frutto di una «gestione neoliberale dei conflitti socioambientali»: gli accordi con i governi locali e con quello federale, oltre ad escludere dalle trattative le popolazioni interessate, prevedono che la gestione delle pratiche e la concessione dei fondi rimangano sotto il controllo delle imprese responsabili dei disastri (la Vale e le sue associate), che possono così decidere chi ne sarà beneficiato e chi no.
Tale visione trova sostegno in uno studio della prestigiosa Fondazione Getúlio Vargas – relativo alla Fondazione Renova, la struttura messa in piedi a seguito del disastro di Mariana – che denuncia le carenze relative alla trasparenza, all’accesso alle informazioni e alla comunicazione, e l’insufficienza nel riconoscimento dei danni a favore delle comunità locali.
Inoltre, alle imprese viene anche concessa ampia libertà nella ricostruzione e nell’esecuzione dei progetti socio-ambientali di riparazione: si dà così a dei privati «il potere di elaborare, pianificare e implementare politiche pubbliche, cosa che dovrebbe essere una prerogativa esclusiva dello Stato».
Ciò implica, in alcuni casi, anche una notevole arbitrarietà nella scelta delle aree da isolare a causa del pericolo di cedimento dei bacini, con la conseguente dispersione delle comunità locali senza che vengano prima definite una data per il loro ritorno e un piano di azione concreto di interventi sulle strutture interessate.
A ciò si aggiunge la dipendenza degli enti locali dall’attività estrattiva – sia direttamente, con le compensazioni finanziarie per lo sfruttamento delle risorse e la creazione di posti di lavoro, che indirettamente, con la riduzione e l’annullamento di altre possibili attività economiche – fino all’esaurimento delle risorse che spinge le imprese a trasferirsi altrove.
Dal Mozambico al Brasile: chi paga le conseguenze dell’attività mineraria
Oltre ai danni nei confronti dei lavoratori e quelli causati dagli incidenti, sono propri quelli prodotti dal «razzismo ambientale» ad avere effetti diretti e pesanti nei confronti delle popolazioni presenti sul territorio: come la contaminazione delle acque e del suolo e la presenza di polveri che inquina l’aria e invade i polmoni degli abitanti.
Due esempi chiari: l’attività nella miniera di Moatize, in Mozambico, provoca l’emissione di materiale particolato PM2.5 in concentrazioni altamente al di fuori dei limiti raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità e da quelli previsti dalle leggi locali.
Il territorio indigeno Xikrin do Cateté (nello stato brasiliano del Pará), invece, circondato da quattordici stabilimenti della Vale, secondo un’indagine dell’Instituto Socioambiental (Isa), sarebbe compromesso nella sua interezza a causa dell’incidenza dei processi di estrazione. In particolare la presenza di metalli pesanti nel fiume Cateté sarebbe all’origine di una serie di malattie intestinali, dermatologiche, oftalmiche, oltre all’insorgenza del diabete e di malformazioni fetali.
L’impatto sulle donne: l’accusa di Pacs e Fondazione Vargas
E le donne risultano doppiamente vittime: oltre alle conseguenze sulla loro salute, come documenta una recente pubblicazione dell’Instituto Políticas Alternativas para o Cone Sul (Pacs), vengono tenute in minore considerazione nell’accesso all’impiego e relegate in posizioni subalterne e precarie, sottoposte a condizioni di lavoro più rischiose.
Così perdono l’autonomia personale, quella nella produzione casalinga degli alimenti, quella economica (risultando sempre più dipendenti dalle loro famiglie), oltre ad essere soggette in maniera crescente a violenza, sul lavoro e domestica.
Inoltre, come spiega un’analisi della Fondazione Vargas, restano isolate dalle discussioni collettive ed escluse dai processi decisionali, hanno maggiori difficoltà nell’accesso agli aiuti finanziari e alle indennizzazioni, subiscono un sovraccarico nei lavori domestici, mentre le attività produttive in casa (come artigianato e agricoltura) non sono riconosciute. Diminuisce anche la tutela della loro salute mentale e cala l’attenzione per le necessità essenziali delle gestanti e delle neomamme.
«Basta criminalizzare gli attivisti, sì a risarcimenti integrali»
L’Articolazione internazionale delle vittime della Vale denuncia inoltre i tentativi di delegittimazione e la criminalizzazione da parte dell’azienda dei movimenti di protesta e dei difensori dei diritti umani e rivendica il diritto a risarcimenti integrali delle vittime – che tengano conto dei danni economici, morali, psicologici e sociali e prevedano la creazione di territori liberi dall’attività mineraria – e la partecipazione della società civile nelle decisioni e negli accordi fra l’impresa e lo Stato.
Il 30 aprile l’organizzazione ha fatto sentire la propria voce anche all’interno dell’assemblea annuale degli azionisti della Vale, con sette dichiarazioni critiche relative ad alcuni degli aspetti appena esposti, ma anche alla repressioni del dissenso a livello locale, alla diffusione di un clima di terrore fra le popolazioni coinvolte, a frodi nelle votazioni del consiglio di amministrazione.
L’«insostenibilità» della Vale, occorre sottolinearlo, non è d’altronde soltanto uno slogan: nel 2019 la Borsa valori di San Paolo ha escluso le azioni dell’impresa dall’Indice di sostenibilità delle imprese (Ise B3), mentre nel 2020 il Fondo sovrano norvegese ha ritirato l’azienda dal suo portfolio a causa del mancato impegno nella riduzione del mutamento climatico e della deforestazione.