Nicaragua: a 3 anni dalla “grande repressione” Ortega vìola ancora i diritti
La brutale repressione del dissenso del presidente Daniel Ortega del 2018 ha lasciato segni indelebili tra la popolazione del Nicaragua. Dove ancora oggi il commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, denuncia gravi violazioni
Tra il 18 e il 20 aprile si sono commemorati 3 anni dalle proteste del 2018 che vennero brutalmente represse da Daniel Ortega, ancora oggi presidente del Nicaragua. L’alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, nelle settimane passate ha diffuso un report denunciando una situazione sempre più grave di repressione, incarcerazione e criminalizzazione del dissenso, nonostante la pandemia.
Nelle proteste di tre anni fa, e nella repressione dei mesi successivi, furono centinaia i morti e le persone incarcerate arbitrariamente. Alvaro Conrado, di appena 15 anni, colpito alla gola da un proiettile, è diventato uno dei simboli delle proteste con la frase recitata prima di morire, «mi fa male respirare».
Ad oggi, secondo Sos Nicaragua Europa, sono 100 mila gli esiliati dal Nicaragua per la repressione del regime della coppia Daniel Ortega-Rosario Murillo, attuali presidente e vicepresidente del Nicaragua, nonché marito e moglie.
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Nicaragua pericoloso: l’insurrezione del 2018
Tra il 18 e il 20 aprile 2018 una serie di eventi avevano saltare il tappo della pentola a pressione nella quale si era convertita la Repubblica del Nicaragua sotto la presidenza di Daniel Ortega. Il paese viveva già una notevole tensione sociale per l ‘eccessiva centralizzazione del potere, la sfacciata corruzione della cupola di governo e una erosione costante degli spazi democratici. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la decisione di riformare l’Istituto nicaraguense di sicurezza sociale (Inss).
Il 18 aprile alcuni pensionati scesero in piazza per protestare contro la riforma e vennero attaccati da simpatizzanti del governo di Ortega. Questo produsse un’ondata di indignazione che infiammò gli animi, specialmente nelle università. Quella stessa notte cominciò la mobilitazione studentesca che divenne la spina dorsale dell’insurrezione civica.
Il 19, 20 e 21 aprile la capitale Managua e altre città del paese, come León, divennero teatro di una repressione senza precedenti. La polizia in tenuta antisommossa, coadiuvata da paramilitari, sparò ad altezza uomo, per uccidere: il quindicenne Álvaro Manuel Conrado Dávila (Alvarito) morì colpito alla gola da un proiettile.
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Alvarito, ucciso nella capitale Managua a soli 15 anni
Alvarito ero uno studente delle superiori che la mattina del 20 aprile decise di dare il suo supporto agli studenti dell’Universidad Nacional de Ingeniería (Uni) che stavano esprimendo il loro dissenso verso chi gli stava togliendo il futuro. Troppo giovane per stare nella prima linea dello scontro, si occupava di portare acqua ai più grandi, a coloro che affrontavano le cariche della polizia.
Proprio mentre cercava di compiere con zelo la sua missione, d’improvviso venne colpito da un proiettile di un cecchino appostato nello stadio nazionale Denis Martínez. «Mi fa male respirare», riuscirà a dire prima di essere portato alla tenda medica e successivamente essere trasportato da volontari all’ospedale Croce Azzurra della capitale.
Ma al presidio medico ospedaliero Alvaro non venne fatto passare. L’ordine giunto alle strutture di salute pubblica del paese dall’allora ministra della salute del regime di Daniel Ortega, Sonia Castro, era chiaro e perentorio: nessuna attenzione medica doveva essere data ai manifestanti.
Così, tra lo sgomento e la rabbia generale, Alvarito fu portato in un altro ospedale privato, il Bautista, dove, dopo un disperato tentativo di salvarlo con un’operazione chirurgica di 4 ore, si stabilì la sua morte. Aveva perso troppo sangue, diranno medici: se avesse ricevuto immediata attenzione sanitaria si sarebbe potuto salvare.
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Gli eroi di aprile: centinaia di morti e desaparecidos
Alvarito è uno dei martiri delle proteste di aprile e il cantautore nicaraguense Jandir Rodríguez gli ha dedicato una commovente canzone, El libertador.
Purtroppo la storia del quindicenne di Managua è solo una delle tante storie di dolore e repressione di quei giorni: altri giovani studenti morirono per non essere stati accolti negli ospedali pubblici.
Il giorno prima furono tre i morti registrati nelle proteste. Il 20 aprile, oltre ad Alvarito, morirono altre 6 persone e il 21 aprile si erano già passate le 20 vittime. Gli eroi di aprile, titolo di un’altra intensa canzone di Rodriguez, furono decine: secondo quanto riportato dalla Commissione interamericana sui diritti umani (Cidh) dopo la visita al paese centroamericano, furono centinaia le vittime della repressione dei mesi successivi.
Nel documento del 21 giugno 2018, “Gravi violazione dei diritti umani nel quadro delle proteste sociali in Nicaragua” (qui il PDF), la Cidh scriveva:
«Questo rapporto affronta la situazione dei diritti umani in Nicaragua osservata dal Commissione interamericana per i diritti umani durante la sua visita al paese dal 17 al 21 maggio 2018, in relazione agli atti di violenza verificatisi dalla repressione statale delle proteste iniziate il 18 aprile 2018 e in relazione ai nuovi eventi monitorati nelle settimane successive. Secondo i dati diffusi dalla Cidh, l’azione di repressione dello Stato ha prodotto almeno 212 morti fino al 19 giugno, 1.337 feriti e al 6 giugno, sono 507 le persone che risultano essere state private della libertà. Sono inoltre centinaia le persone a rischio dopo essere state vittime di attacchi, molestie, minacce e altre forme di intimidazione».
E il 24 settembre 2018 l’Associazione nicaraguense per i diritti umani (Anpdh) parlava già di 1.300 desaparecidos, 512 morti e oltre 4.000 feriti.
La repressione di Daniel Ortega: vietato criticare
Dopo i fatti di aprile, si inaugurò un sistema di repressione e di terrore teso a smantellare ed eliminare alla radice ogni possibile opposizione al regime. L’“operazione pulizia”, lanciata a luglio da Ortega, mirava all’eliminazione delle barricate nelle principali città.
Seguirono centinaia di incarcerazioni arbitrarie e la persecuzione di chi aveva partecipato alle proteste. A settembre furono sospese le libertà civili e democratiche, impedendo la libera circolazione, il diritto di manifestare e limitando i diritti costituzionali della popolazione. Infine, a dicembre, fu il momento dell’attacco finale contro ong e stampa.
Paulo Abrāo, all’epoca segretario della Cidh, dichiarò che in Nicaragua il governo «aveva chiuso ogni spazio democratico, stabilendo di fatto uno stato di eccezione dove il diritto alla protesta sociale non può essere esercitato. Nel diritto internazionale dei diritti umani, lo standard è chiaro e suppone verità, giustizia, riparazione e garanzia di non ripetizione, ma i vertici dello Stato del Nicaragua hanno dimostrato un disinteresse generalizzato verso le raccomandazioni della Cidh».
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Situazione in Nicaragua oggi
Il collettivo Sos Nicaragua Europa ha realizzato il 18 di aprile un lungo ed emozionante evento online di 8 ore, con la partecipazione di familiari delle vittime, cittadini in esilio, attivisti, accademici e artisti da ogni parte del mondo, per mantenere alta l’attenzione sulle costante violazioni dei diritti umani in Nicaragua e onorare la memoria di quanti hanno lottato e lottano per una paese libero dal regime della coppia Ortega- Murillo.
Lo stesso collettivo ha recentemente pubblicato, in spagnolo, il libro bianco dal titolo “Le evidenze di uno Stato totalitario: violazione dei diritti umani nelle università pubbliche del Nicaragua”, scaricabile gratuitamente dal sito web dell’organizzazione.
Proprio il 20 aprile 2021, il fratello di George Floyd, pochi minuti dopo aver ascoltato la sentenza unanime della giuria che dichiarava l’ex poliziotto Derek Chauvin colpevole dei tre delitti imputatigli, ha dichiarato: «Oggi posso tornare a respirare…». Facendo così allusione alle ultime parole di Floyd, diventate un simbolo di lotta: I can’t breath (non posso respirare) (leggi anche Razzismo Usa: l’omicidio di George Floyd travolge gli Stati Uniti).
Tre anni fa le parole di Alvarito furono tragicamente simili, il suo «me duele respirar» (mi fa male respirare) è diventato un grido di lotta e di denuncia in una Nicaragua che continua a vivere soffrendo ad ogni respiro e lottando perché sia fatta giustizia.