Lavoratori della cultura: senza sussidi, senza stipendio e sempre più precari

È quanto emerge da un'indagine condotta dal collettivo "Mi riconosci?" su professionisti della cultura di tutta Italia. Di questi, molti sono rimasti senza lavoro e senza sussidi. E chi lavora, lo fa essenzialmente con partita Iva, per molte più ore rispetto a prima e allo stesso compenso. Ecco i risultati dello studio

Quando si pensa alla crisi economica causata dal Covid-19 raramente si pensa a loro. O meglio, si pensa a tutte quelle attività culturali chiuse o sospese, come cinema, teatri, musei, ma non ci si sofferma su tutti quei lavoratori della cultura che da tempo sono fermi e non sanno quando riusciranno a riprendere l’attività in modo stabile.

Sono i professionisti dei beni culturali, quattro parole che racchiudono al loro interno archeologi, bibliotecari, ricercatori, operatori del turismo, educatori museali, storici dell’arte e tanto altro ancora.

La precarietà? Una condizione costante aumentata con la pandemia

Hanno tutti codici Ateco diversi, che definiscono settori e sottocategorie di appartenenza, ma una situazione comune: quella della precarietà, che con la pandemia da coronavirus è diventata una condizione costante.

A fotografare la loro situazione è il collettivo Mi riconosci?, nato nel 2015 per rivendicare appunto il riconoscimento delle professioni culturali e che, a un anno di distanza dal primo lockdown, ha condotto un’indagine di settore attraverso un questionario online, diffuso sul sito e sui social media.

A rispondere, tra il 23 febbraio e il 31 marzo 2021, sono state 1.800 persone da tutta Italia, di cui più del 50% ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. «L’obiettivo di questa ricerca», spiega Mario Francavilla, professionista dei beni culturali, è di «analizzare quali siano le condizioni in cui versano i lavoratori con il prolungarsi della pandemia. Avevamo fatto un’indagine un anno fa all’inizio del lockdown e questa è la naturale conseguenza. Nel 2021 la situazione non è migliorata, tutt’altro: l’emergenza sanitaria ha esasperato molti aspetti».

Aggiunge Rosanna Carrieri, sempre del collettivo di Mi Riconosci?: «Rispetto all’anno scorso abbiamo voluto allargare lo sguardo all’intero settore culturale, non solo lavoratori e lavoratrici dipendenti e autonomi, ma abbiamo coinvolto anche chi è responsabile di attività, cooperative, aziende imprese».

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lavoratori della cultura precari
Foto: Pixabay

Solo il 30,7% ha mantenuto il lavoro che aveva prima della pandemia

Dall’indagine emerge che il 65% degli intervistati aveva un lavoro prima della diffusione del Covid-19. Un’occupazione che però non è riuscito a mantenere.

Di questi, vale a dire 1.066 intervistati, a mantenerlo è stato solo il 30,7%, il 19,8% l’ha tenuto solo in parte, il 26,5% per nulla e il 23,1% in maniera intermittente.

Le condizioni di chi continua a lavorare sono poi le più disparate: il 16,1% ha una partita Iva, il 18,4% ha un contratto multiservizi, il 9% contratto turistico, il 12,6% nel commercio e così via.

Non aver perso il lavoro, però, non vuol dire esser riusciti a condurre le proprie attività al meglio: la maggioranza di chi ha risposto al sondaggio dice di essere riuscito a proseguire, sia in smart working sia in presenza, anche grazie ai sussidi lavorativi.

E quanto alle ore lavorate, sono state molte di più di quelle effettivamente pagate: a dirlo è il 56,2% delle persone che ha risposto alla domanda sul compenso, mentre il resto ha dichiarato di aver lavorato meno (20,1%) o lo stesso numero di ore (23,7%).

Per molti di questi professionisti, inoltre, il lavoro nel settore dei beni culturali non è sufficiente per vivere. A pensarla così è il 35,7% di chi ha mantenuto il lavoro, mentre il 31,1% pensa sia appena sufficiente. Mentre le restanti percentuali, poco meno del 40%, hanno una visione più ottimistica o speranzosa.

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Chi perde il lavoro difficilmente ne trova un altro

Drammatici i dati di chi invece aveva un lavoro prima della pandemia e l’ha perso. Di questi, una buona fetta lavora nel turismo, oltre il 19%, il 14,6% nello spettacolo, l’8,8% nel commercio terziario e nei servizi. Persone che non solo hanno perso l’impiego, ma non ne hanno trovato un altro, come ammette il 47,2%, mentre il 24,2% non percepisce al momento né stipendio né sussidi. E il 17,7% ha dovuto cambiare settore per lavorare.

Il tutto non senza rimetterci: oltre il 40% di chi ha risposto alla domanda «A quanto stimi ammontino le perdite?» ha stimato il 100% e per il 33% si va dall’80 al 90% della retribuzione.

Racconta una delle partecipanti al sondaggio – svolto in modo anonimo – storica e critica dell’arte che dal 2009 ha sempre lavorato, ma in modo precario, prima co.co.pro., poi a tempo determinato e infine con partita Iva:

«A inizio 2020 lavoravo da circa un anno come consulente a partita Iva per una nota fondazione nazionale italiana che si occupa di valorizzazione e tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, guadagnavo circa 1.000 euro al mese nette. Il 10 marzo 2020 mi è stato comunicato (con un messaggio) che non c’era più bisogno di me al momento perché naturalmente i progetti che seguivo erano saltati, ci saremmo magari risentiti più avanti (così mi si diceva). Dopo un anno passato a mandare Cv e partecipare a bandi ora da un mese ho vinto una borsa di studio di un anno che mi consentirà di non morire di fame, ma che non fa che prorogare l’agonia».

E a poco sembrano servire i sussidi dello Stato se, come emerge dal sondaggio, il 38,7% dei rispondenti non è per nulla soddisfatto degli aiuti previsti.

Continua la storica dell’arte: «La situazione resta drammatica e per 12 mesi sono rimasta senza guadagnare un euro e ho avuto solo 600 euro dal decreto Ristori a marzo 2020. Se non fosse per mio marito, che per fortuna fa un altro lavoro, non so come avrei fatto, tra l’altro con le scuole chiuse a intermittenza e nostro figlio di 5 anni a casa è ancora più complicato trovare un lavoro stabile, che comunque prenderei al volo se si trovasse».

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lavoratori della cultura e dello spettacolo
Manifestazione a Bologna del collettivo Mi riconosci? – Foto tratta dal sito www.miriconosci.it

«I figli e la Dad non mi permettono di andare in cantiere»

La precarietà dei professionisti dei beni culturali si mescola a tutto quello che già conoscono tanti altri lavoratori del settore e non: il fatto di avere i figli a casa e doverli seguire durante la didattica a distanza.  Racconta infatti un’altra professionista:

«Sono archeologa, ho dovuto aprire partita Iva per poter continuare a lavorare nei due musei civici dove per 10 anni ho svolto un lavoro continuativo part-time. L’ente con cui avevo il contratto prevalente non mi ha rinnovato a fine 2020 e ora ho solo una piccola collaborazione. 50 anni e due figli minori di 14 anni, non posso più permettermi di andare in cantiere. Come libera professionista e madre ho dovuto rinunciare ad alcuni lavori di consulenza per cantieri monumentali e di scrittura di saggi per seguire i figli in Dad, sarà molto difficile recuperare lo svantaggio accumulato questo anno in futuro».

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Foto: via Pixabay

I datori di lavoro dei beni culturali: alla fine della crisi non tutti riprenderanno

E cosa dicono i datori di lavoro? L’indagine portata avanti dal collettivo ha dato spazio anche a loro in quanto titolari di associazioni, piccole imprese, consorzi, ditte individuali da 0 a massimo 15 dipendenti. A partecipare sono state circa 178 persone.

Alla domanda «Alla fine della crisi potrai ricominciare regolarmente la tua attività contando su tutti i/le collaboratori/trici che avevi in precedenza alla pandemia?», il 26,4% ha risposto con un no perentorio, il 19,7% ha detto di sì senza cambiamenti, il 18% ha ammesso che riprenderà ma in misura ridotta.

C’è poi il 12,9% che ha risposto più no che sì, il 10,1% sì, ma diminuendo il persone. Il 9,6% pensa che non continuerà l’attività per le perdite causate dalla pandemia e il 3,4% perché ha perso parte dei dipendenti.

Spiega Rosanna: «Lo scenario è drammatico, ecco perché c’è bisogno di una riforma strutturale del settore e di rifinanziare il settore culturale». Se non si proseguirà così «c’è il rischio di una maggiore emorragia», conclude Mario.

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