Myanmar, ecco chi c’è dietro al colpo di stato dei militari

Proseguono le proteste scoppiate con il colpo di stato in Myanmar. Aung San Suu Kyi resta ai domiciliari. La repressione ha già portato a centina di arresti e feriti. L'Onu lancia l'allarme. E sullo sfondo si staglia l'ombra di un generale

da Hua Hin (Thailandia)

Non si fermano le proteste contro il colpo di stato militare del 1° febbraio in Myanmar. E non si ferma neanche la brutale repressione contro i manifestanti. Negli ultimi giorni centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade di numerose città del Paese per chiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi e il rispetto dell’esito delle elezioni del novembre scorso, che hanno visto una vittoria schiacciante del National League for Democracy (Nld) con ben 396 dei 476 seggi in palio.

L’esercito durante queste settimane ha imposto la legge marziale e il coprifuoco in varie parti del Myanmar e ha dato l’ordine alle forze di sicurezza di usare il pugno duro contro chiunque mostri il proprio dissenso. La polizia in assetto antisommossa e dotata di fucili d’assalto, ha iniziato a usare idranti, gas lacrimogeni, manganelli e ha sparato con proiettili veri e di gomma contro la popolazione civile.

Nei giorni successivi, con l’aumento delle dimostrazioni per la democrazia, nelle strade sono stati schierati anche carri armati e truppe militari. Le ultime informazioni che ci arrivano dalla ex Birmania parlano di centinaia di feriti e oltre 500 arresti.

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Aung San Suu Kyi – Foto: Claude TRUONG-NGOC (via Wikimedia Commons)

Myanmar, colpo di stato: l’appello dell’Onu

«In passato, questi movimenti di truppe hanno preceduto uccisioni, sparizioni e detenzioni su vasta scala», ha dichiarato Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite.

«Potremmo essere sull’orlo del precipizio, dove i militari potrebbero commettere crimini ancora più gravi contro il popolo del Myanmar. La continua repressione della popolazione e la violazione delle libertà fondamentali e dei diritti umani deve cessare immediatamente», ha aggiunto.

Andrews ha poi lanciato un «appello urgente» a tutti i governi, individui ed entità che possono avere influenza sulle autorità militari del Paese «per convincere la giunta che le manifestazioni devono essere autorizzate a procedere senza detenzione o violenza».

Nella dichiarazione, il relatore speciale dell’Onu ha anche ricordato che «coloro che sono nella catena di comando, indipendentemente dal grado, possono essere ritenuti responsabili per qualsiasi atrocità commessa contro il popolo del Myanmar e che devono disobbedire agli ordini di attacco».

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Foto: Pixabay

Aung San Suu Kyi, ai domiciliari nella capitale Naypyitaw, rischia sei anni di carcere

Intanto è iniziato il processo ad Aung San Suu Kyi, agli arresti da oltre due settimane. Oltre ad essere stata imputata per «importazione e utilizzo illegale di apparecchiature di trasmissione e ricezione radio», per aver «importato illegalmente dei walkie-talkie», la Signora è ora accusata anche di avere «violato la legge sulla gestione delle catastrofi naturali», per aver interagito con un gruppo di persone durante l’epidemia.

Khin Maung Zaw, il suo avvocato, non era neanche stato avvertito dell’inizio del processo e quando è riuscito ad arrivare in tribunale l’udienza – durata meno di un’ora – era già conclusa.

La leader dell’Nld e simbolo della speranza democratica in Myanmar, se condannata, rischia fino a sei anni di carcere e l’impossibilità di candidarsi a qualsiasi elezione futura. I militari hanno fatto sapere che Aung San Suu Kyi è «in buona salute» e che si troverebbe ai domiciliari nella capitale Naypyitaw. Ma dove si trovi realmente detenuta in questo momento resta ancora un mistero.

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Min Aung Hlaing, il generale dietro al golpe militare nell’ex Birmania

Il generale Min Aung Hlaing sarebbe stato costretto ad andare in pensione a luglio, quando avrebbe compiuto 65 anni, e così facendo avrebbe perso gli enormi privilegi economici e personali che gli sono stati concessi nella sua posizione di comandante in capo del Tatmadaw, l’esercito birmano.

«Min Aung Hlaing e la sua famiglia sono coinvolti in molti affari, grazie al fatto che lui è al vertice di un impero economico corrotto sostenuto dal potere militare», spiega a Osservatorio Diritti l’organizzazione Justice for Myanmar (Jfm), che da anni si batte per la giustizia nel Paese dell’Asia.

Il numero uno dell’esercito «ha abusato del suo potere per la sua ricchezza personale e quella della sua famiglia, approfittando dell’accesso dei militari alle risorse statali, alle licenze e agli appalti pubblici e anche grazie al conglomerato militare Myanma Economic Holdings Limited (Mehl)».

L’organizzazione entra nei dettagli: «Il figlio di Min Aung Hlaing, Aung Pyae Sone, gode di accordi vantaggiosi su licenze e permessi per le sue imprese di ospitalità, la figlia Khin Thiri Thet Mon gestisce una società di produzione di media che ha contratti con Mytel», l’operatore di rete mobile del Paese in parte di proprietà dei militari, finita sotto i riflettori nei giorni scorsi (leggi Myanmar: banche europee e società internazionali sostengono i militari).

«Organizzare un colpo di stato – continua Jfm – significa che Min Aung Hlaing può mantenere il suo accesso alle aziende e alle risorse statali e la ricchezza e il potere che ne deriva».

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Immagine tratta dal sito dell’organizzazione Justice for Myanmar

Le richieste di Justice for Myanmar

«Ci deve essere un’azione decisiva in risposta al colpo di Stato, all’ondata di arresti, alla violenza e all’intimidazione dei manifestanti pacifici, così come alle continue violazioni dei diritti umani internazionali e delle leggi umanitarie», spiegano gli attivisti di Jfm (leggi anche Diritto umanitario di guerra e diritti umani: ecco come possono convivere).

«La comunità internazionale deve imporre sanzioni mirate contro i membri militari del nuovo Consiglio Amministrativo di Stato, i loro parenti stretti, le loro imprese e i loro soci in affari».

«A tutti i costi, la comunità internazionale deve evitare di fare affari con i militari del Myanmar, i suoi conglomerati e le aziende collegate», conclude l’organizzazione per i diritti umani.

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